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Napoli, la nostra capitale*

© 1997 Nicola Zitara

Non porto il mantello a ruota, e - ahimé - non fo il notaio, ma tutte le volte che ho l'opportunità di passare un giorno o una settimana a Napoli, ne sono immensamente felice. Nei ricordi familiari, Napoli era la città per antonomasia, la capitale, se non piú quella politica, certamente la capitale culturale e commerciale. Il luogo del lavoro, del divertimento, dell'apprendimento. L'avo e il nonno vi avevano avuto la sede centraledei loro affari a partire dai tempi forse felici di Francesco I, fino a quelli sicuramente amari di Umberto I.

Una generazione dopo l'altra, i maschi della famiglia vi hanno studiato: chi medicina, chi ingegneria. Una generazione dopo l'altra, qualche volta, si sono seduti al Gambrinus, sono andati a San Carlo, hanno passeggiato per via Caracciolo, si sono riforniti di novità librarie da Fiorentini o da Pironti, hanno comprato da Caflish una pastiera o una guantiera di sfogliatelle da portare a casa, in provincia, per la festa dei figlioletti o dei nipotini.

Nonostante l'espropriazione garibaldina, cavouriana, sabauda, depretisiana, giolittiana, mussoliniana, Napoli conservata, piú che il profumo di un capitale, la vitalità: il monopolio dell'industria pastaia, dell'industria conserviera, della grande canzone, del caffè chantant, del sole, del mare, l'identità gioiosa della vera italianità, la solida architrave dell'ultima porta di casa prima di lasciare in nave l'Italia, il primo colore della terra nativa, per chi rimpatriava. Poi Napoli è morta. Gli umori che fluivano verso di lei spontaneamente, vennero dirottati. Era scritto, doveva morire, perché le capitali, o sono capitali o muoiono.

Parigi e Londra sono rimaste capitali, il livore sabaudo, la meschinità piemontese, la fame padana di prede l'hanno fatta scalare al livello di Cuneo. La prima metropoli del mondo moderno è stata degradata a metropoli del sottosviluppo. E Napoli ha pagato senza chiedere il resto, l'errore commesso ottocento anni prima, rifiutando Manfredi, mozzando la testa a Corradino, aderendo alla politica del papato romano.

Poi le scadenze sono sopravvenute a catena. Ha pagato a Roma, ha pagato a Milano, e anche a Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze e persino a Modena, i debiti che aveva già estinto. E dopo aver pagato, è ancora in debito. D'altra parte, neppure per un momento ha voluto dichiarare bancarotta. Ha preferito rateizzare il debito all'infinito, fino al giorno del giudizio. Fingere, idealizzando il proprio suicidio con il balordo ausilio di don Benedetto, ridendoci sconsolatamente sopra con Scarpetta, illudendosi di universalizzare l'umana sconfitta con Eduardo, finalmente scompisciarsi con Totò....se fumarono a Zazà... Dove sta Zazà, compagna mia...

È morta filosofando, cantando, ridendo, piangendo dietro il battente socchiuso del portone di casa. E canta ancora, da morta. Canta il museo bassolinesco, anzi il presepe pidiessino, popolato da quattro milioni di pastori venuti da antichi secoli, con i loro stracci ridipinti a nuovo e le loro voragini.
Noi eravamo. Siamo stati. Fummo.

Le mie figlie non hanno voluto studiare a Napoli. La conoscono appena. La vita è altrove, anche se la pizza è napoletana, e anche se la pizza ha unificato il mondo. Americani, giapponesi, tedeschi, milanesi siedono a mangiare moderne pizze in moderne pizzerie. E bevono Coca Cola. Il piú mondiale dei trust monopolistici si è allenato con il minuscolo artigiano del vicolo. Ce la farà Mac Donald's a metterlo in soffitta?

Ce la farà. Renzo Arbore, la canzone, la pizza; San Martino illuminato a giorno, che chiude l'orizzonte serale; il Maschio Angioino, i tronfi re di pietra sulla facciata del Palazzo Reale, la targa marmorea sul muro cadente della casa del filosofo.

Per una volta nella ancora nella vita, vago per questa San Gregorio Armeno dilatata da Bagnoli a Pozzuoli, in cerca di un popolo. Ma è chiaro che questi vecchi pastori rimpannucciati, mangiando solo pizza, di cui non macinano la farina, piglieranno lo scorbuto. Anzi, già ce l'hanno. O Napoli torna capitale, o muore.

* Il testo è di NICOLA ZITARA, il titolo è di Mino Errico.