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Rivista elettronica
del movimento separatista meridionale
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Nicola Zitara risponde ai messaggi
(le risposte seguono i messaggi ricevuti)
© 2000 Nicola Zitara
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comment: problema fondamentale : il "senso di appartenenza", nelle nostre terre meridionali,è, da sempre putroppo, riferito all' area circoscritta del paese, quando non della frazione. Il vantaggio che il Nord ha in una prospettiva indipendista, è anche questo.
Esiste al Nord, mi sembra, un senso di comunità "su piú vasta base territoriale", almeno con riferimento ad una compatta area regionale.
P. es. in Campania : chi riuscirà mai a coinvolgere in un medesimo progetto concreto, non 1 ma 1000 napoletani, contestualmente a non 1 ma 1000 casertani, beneventani, aversani, irpini ...
anche al Nord le etnie sono piú incerte di quanto i leghisti vogliano credere e far credere, ma
al Nord in realtà a far da collante è l' intenzione di escludere i meridionali dal benessere
raggiunto (in gran parte a spese dei meridionali).
La mancanza di un vero comune sentire tra i popoli meridionali è pure alla base della debolezza del Sud.
Questa capillare frammentazione del senso di appartenenza, lo limita all' interno di unità teritoriali minime, spesso coincidenti con i singoli paesi, quasi mai con la provincia o la regione.
Guarda caso, avviene cosí anche nella spartizione del territorio da parte della delinquenza organizzata.
L' unica chance viene dal momdo della scuola.
E' essenziale cointeressare alla discussione della problematica autonomistica larghi strati di educatori.
I giovani parcheggiati nelle nostre scuole sono come ammalati che hanno il diritto di sapere di quale morte stanno per morire.
Com' è ovvio, ogni riscossa è mpossibile senza consapevolezza.
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Il comune dissentire

L'amico rileva - giustamente - che nel Meridione scarseggia il comune sentire, cosa che poi fa una nazione. Due meridionali assieme non fanno una società, ma una cosca, o come si dice nel linguaggio 'ndranghitistico, una 'ndrina. Quattro meridionali assieme non fanno una società in nome collettivo, ma due 'ndrine, per giunta antagoniste l'una all'altra.

Nell'autunno del 1860, decine di migliaia di contadini- soldati si accalcarono sotto le mura di Gaeta perché volevano combattere l'ultima battaglia con il loro re, che ai loro occhi rappresentava la libertà nella loro terra, il Regno, quella napoletanità che oggi abbiamo tutti perduto. E' significativo che ciò sia avvenuto uno o due mesi dopo che gli ammiragli e i capitani napoletani, che pure avevano giurato al re fedeltà fino alla morte, avevano venduto - stipulando il negozio fellone proprio sotto le finestre del palazzo che il re abitava - se stessi e l'intera flotta, che pure era tanto forte da poter facilmente affondare quelle sabauda, per poche decine di migliaia di lire e un posto in carriera.

Purtroppo, la nostra aristocrazia era composta essenzialmente dai discendenti degli usurai venuti da Genova e da Firenze a lucrare sugli arrendamenti regi e feudali. I grandi si sentivano sopra lo Stato e i medi e piccoli lo riconoscevano sono quando si trattava di scroccare qualcosa. Solo il popolo era patriota. A partire dai Vespri siciliani, la storia del popolino meridionale è punteggiata da ricorrenti sollevazioni: antifrancesi, antispagnole, la guerra per bande contro i Napoleonidi e contro i sabaudi. Ma i contadini e il popolino delle città, pur essendo patriotticamente motivati, politicamente erano plebe. Non avevano l'idea di Stato (come peraltro dovunque in Europa prima della rivoluzione industriale, solo che altrove le aristocrazie non venivano dall'usura; caso esemplare la Svizzera dove l'aristocrazia aveva un fare diremmo oggi democratico, ma anche in Sardegna le cose stavano meglio che a Napoli e in Sicilia).

Se gli aristocratici meridionali avessero avuto il sentire di Tommaso Campanella e di Masaniello, il nostro paese sarebbe diverso. In settecento anni di storia coloniale, l'aristocrazia sudica ha dato un solo patriota, Fabrizio Ruffo. Purtroppo era anche un uomo incline alla modestia (e forse troppo ubbidiente al papa), cosí non buttò a mare, e l'avrebbe ben potuto fare, Horacio Nelson e gli Hamilton, non incastrò come era giusto, Ferdinando e non rispedí in Austria Maria Carolina. Poteva essere un Cromwell e invece (lui che aveva salvato la patria) si fece cacciare da Napoli e accettò d'esser abbassato al ruolo d'ambasciatore. Insomma sprecò l'occasione storica che egli stesso aveva costruito.

 

Siamo una non nazione. L'unico impegno profuso con metodo e serietà dallo Stato nazionale italiano nel Meridione, da quando il Nord ha conquistato il Sud, è stato di squalificarlo nella capacità produttiva e nell'immagine. I padani, per svilupparsi, volevano un popolo di iloti, e lo hanno avuto. Hanno regalato ai ricchi le terre della Chiesa e il Demanio pubblico, hanno prezzolato i politicanti, hanno scatenato il clientelismo, hanno inaugurato il notabilato, hanno escogitato l'assistenzialismo, hanno governato contemporaneamente con carabinieri e con la mafia. Con i partiti nazionali e i sindacati nazionali hanno falsificato lo scontro politico. Et cetera.

Il Meridione è oggi un paese che si identifica solo per negazione. I meridionali sono italiani negati dalla stessa Italia. Affinché dal negativo passiamo al positivo, dobbiamo negare la negazione, cioè l'Italia. La quale non è stato e non è il nostro paese, la nostra patria. Dobbiamo erigere una statua a Fabrizio Ruffo e porla in Piazza Ferrovia, a Napoli, al posto di quel coglione di Garibaldi. Dobbiamo cambiare il nome a tutte le strade che s'intitolino ai Savoia e ai ministri (fra cui molti meridionali) che scorticarono in mille modi il popolo meridionale. Non dico dobbiamo suscitare l'odio per i settentrionali, che in fondo la loro storia la conoscono anche meno di quanto noi conosciamo la nostra, ma bisogna spazzare il mito nazionale a partire da Cavour e Garibaldi fino a Giuliano Amato, a Enrico Cuccia, alla Juventus e alla Ferrari.

L'obiettivo non è la rivalutazione dei Borbone. Questo lo faranno loro, lo stanno già facendo. Chi non ricorda le nobili incazzature di Federico Zeri? Chi non avverte che Bassolino si struscia sui ricordi di quei dinasti? Persino Ciampi lo fa. No, la procedura è un'altra: i meridionali debbono sapere finalmente su quali razzie piemontesi e nordiste, operate dello Stato, della Banca, dell'Industria, è stata edificata l'Italia degli altri. Su quali costi vivi, a carico del popolo meridionale, va avanti prosperosamente; si europeizza e si eurizza.

Un romano, in un momento di onestà intellettuale, disse del Sud dei suoi tempi, duemila anni fa: "Latifundia Italiam perdidere". Cioè lo scrocco dei senatori romani, che avevano cacciato i coloni dai loro poderi e messo gli schiavi al loro posto, ha rovinato il Sud (Italiam), ha portato a perdizione la piú grande civiltà economica e culturale che il mondo avesse mai avuto prima d'allora; grande rispetto alla stessa Grecia; culla economica e culturale di quella Roma che la rapinava (Graecia capta ferum vincitorem cepit).

Cambiate le dimensioni in senso quantitativo e qualitativo, lo stesso è avvenuto e avviene con l'Italia unita. Purtroppo contro i barbari romani e i loro figli legittimi e spuri, ci siamo dimostrati imbelli. Torniamo in noi stessi come popolo, imparando quella storia unitaria che grida vendetta. Pensate per esempio alle due tratte ferroviarie Napoli-Reggio e Bari-Reggio. Nei libri di storia quella ferrovia è qualificata come un progresso. In realtà si trattò - e si tratta ancora - di due trivelle affondate nel cuore del paese napoletano, che ai napoletani non servivano. Noi le pagammo, ma esse servivano solo a portare i bersaglieri sui fronti di guerra civile che si aprivano o minacciavano di aprirsi al Sud; servivano a costruire la fortuna di un nullatenente nordista, di un grande intrallazzista, molto amato da Cavour (Bastogi). Ripeto, le pagammo, però esse distrussero le attività allora ancora vivaci di dodicimila velieri e ovviamente il futuro della cantieristica napoletana e siciliana, in sostanza il corpo centrale di quella borghesia attiva di cui il professor Gal-asso (piglia tutto) e i suoi accoliti che insegnano storia nelle università napoletane e siciliane avvertono il difetto (ma perché non si pigliano un po’ di bicarbonato!). In verità la storia patria, quella che si legge sui libri degli storiografi italiani, è una sequela di falsità e omissioni. Pensate, per fare solo un altro esempio, che tra il 1868 e il 1890, il governo del re Savoia dovette ricostruire interamente la flotta distrutta dagli austriaci nella battaglia Lissa. Voleva farlo a Sampierdarena, ma gli ingegneri (per esempio il milanese Giuseppe Colombo) chiarirono che solo a Castellammare c'erano attrezzature e maestranze capaci di simile impresa. Da Castellammmare uscí la flotta piú moderna del modo. Bene Castellammare fu subito liquidata e l'Italia s'impegno a costruire La Spezia. Un borgo di 3000 abitanti, già al censimento del 1901 ne contava piú di centomila.

Questa è l'Italia. Liquidare il Sud economicamente e asservirlo culturalmente al Nord era un chiaro progetto del Cavour, che egli stesso mise in opera e che fu portato a una prima conclusione dalla Destra Storica. Fu poi proseguito da Depretis, Cairoli, Crispi, specialmente Giolitti; poi ancora da Mussolini, De Gasperi, Einaudi. Forse Fanfani e i socialisti nenniani avevano l'idea di cambiare rotta, ma la Confindustria e i sindacati, avallati da Togliatti, Longo, Berlinguer, La Malfa e De Martino, li bloccarono.

Se crediamo che negare la negazione porta, oltre che algebricamente, anche politicamente a un numero positivo, allora questo dobbiamo fare: sfrondare lo scettro ai regnatori per mostrare di che lacrime grondi e di che sangue lo Stato nazionale italiano. Le lacrime nostre - quelle della mia generazione, che partí per il mondo umiliandosi a dire che ci dava un tozzo di pane era bello, intelligente, buono e generoso; quello dei padri che in centinaia di migliaia - forse un milione - morirono o rimasero invalidi per difendere la libertà di Milano e Venezia minacciate dall'Austria; quella dei nonni, che piansero sulle loro ricchezze travolte, sui loro poderi inariditi, sui loro arnesi da lavoro resi inutili, davanti alle loro mense, su cui il pane non si vedeva piú; che continuarono a piangere nelle stive dei vapori che li portavano in America, e che non smisero di piangere una volta arrivati a Buenos Aires a New York; infine quelle che piangiamo sui nostri figli e nipoti, senza piú volto, felicità, speranza.

E' questa l'Italia. Eterna, immodificabile. Francischiello lo sapeva già nel 1860 (non vi lasceranno gli occhi per piangere). Quando tutti i meridionali lo impareremo, allora saremo un popolo. Perché la viltà maggiore dell'Italia è stata ed è quella di mentirci.

Nicola Zitara


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