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La "riforma" non affronta nessuno dei problemi dell’università

Eppure l’università è efficiente

di Ugo Arrigo * - da Il Fatto del 16.xii.2010
venerdì 17 dicembre 2010
Nell’ultimo decennio l’Università pubblica è divenuta piú efficiente e ha prodotto piú laureati a un costo unitario inferiore ma i ministri Gelmini e Tremonti non se ne sono accorti. Come premio per l’incremento di efficienza il fondo ministeriale di finanziamento ordinario degli atenei è stato ridotto, sino a scendere dai 7,5 miliardi di euro previsti per il 2009 a soli 6 miliardi stanziati per il 2011.

E non è stata data alle università la possibilità di compensare i tagli modificando i contributi a carico degli studenti. Aumentando mediamente di mille euro l’anno le tasse universitarie per la metà piú ricca degli studenti, Tremonti avrebbe ottenuto circa 900 milioni di euro. Mentre se si fosse esteso a tutte le università il regime contributivo dell’ateneo pubblico italiano che ha le tasse piú elevate si potevano ottenere oltre 1,2 miliardi. Non si è neppure rimossa una vecchia e assurda regola che impone agli atenei di non chiedere agli iscritti piú del 20% di quanto ricevono dal fondo ministeriale: dopo i tagli governativi le università dovrebbero pure ridurre i contributi chiesti agli studenti… Come può l’università mantenere i livelli produttivi raggiunti senza fonti finanziarie coerenti? In questo contesto di tagli finanziari radicali ai trasferimenti pubblici, seppure da pochissimo attenuati con la legge finanziaria, è pervenuto il progetto Gelmini il quale si limita a riformare personale e governance. Si tratta di un’anomalia: la riorganizzazione di un’azienda di mercato è il cambiamento di ciò che produce, dei prodotti, e di come produce. Ma nel caso dell’università nessuno ha parlato del prodotto e dei processi. Luigi Einaudi aveva messo in guardia dal rischio di deliberare senza conoscere: “Perché è cosí lungo l’elenco dei problemi urgenti, e cosí corto quello degli scritti in cui sia chiarito il contenuto di essi? Come si può deliberare senza conoscere? Nulla tuttavia ripugna piú della conoscenza a molti, forse a troppi di coloro che sono chiamati a risolvere problemi”. Poiché non ci possono essere terapie efficaci senza diagnosi precise, prescrizioni valide senza descrizioni accurate, è utile guardare i numeri essenziali del sistema universitario pubblico, quelli che Tremonti e Gelmini non hanno dato e che nessuno ha osato chiedere. Nel periodo 1998-2008, in cui è stata attuata la riforma Berlinguer, i docenti sono cresciuti del 28%, piú dell’aumento degli studenti iscritti che è stato dell’8%. Il rapporto studenti/docenti si è quindi abbassato da 35 nel 1998 a 30 nel 2008 (nei paesi Ocse il dato medio è di 16 studenti per docente). I laureati totali, sommando le nuove alle vecchie tipologie, sono tuttavia cresciuti di oltre il 120%, passando dai 132 mila del 1998 ai 293 mila del 2008. Poiché i nuovi cicli, triennali e biennali specialistici, sono piú brevi dei precedenti, è opportuno pesare i nuovi laureati per la minore durata legale del loro percorso di studi e calcolare i laureati in termini equivalenti a quelli del vecchio ordinamento. Con tale ponderazione la crescita dei laureati si attenua ma rimane consistente: 68%, più che doppia rispetto alla crescita del personale docente.

La produttività dei docenti, calcolata come laureati equivalenti per docente, cresce del 31%, passando da 2,8 a 3,7 laureati annui pro capite. Questo sensibile miglioramento dei risultati produttivi del sistema universitario è stato ottenuto a parità sostanziale di spesa pubblica totale dato che il fondo ministeriale è aumentato nel periodo in termini reali solo dell’11%. In rapporto ai laureati equivalenti l’esborso pubblico si è ridotto nel periodo del 34%, scendendo dai 50 mila euro per laureato del 1998 ai 33 mila euro del 2008. Quale altra azienda al mondo è riuscita a produrre quasi il 70% in piú in dieci anni con un incremento trascurabile dei costi totali? Non era meglio allora partire da questi dati e cercare di conseguire miglioramenti ulteriori, che sono possibili, anziché propagandare inefficienze non provate e mettere a repentaglio i risultati conseguiti? Vi sono due buoni motivi per non proporre cattive riforme: in primo luogo perché sono cattive riforme; in secondo luogo perché, dimostrando la superiorità dello status quo rispetto ai cambiamenti che si desiderano introdurre, mummificano l’esistente chiudendo per molto tempo la strada alla realizzabilità delle buone riforme che sono necessarie.

*professore di Scienza delle Finanze all’Università Bicocca di Milano