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L'Internazionale n. 211, 12.12.1997 ©


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Napoli pizza e centauri

“Se il primo giorno pensavo che la città fosse caotica, demente e insopportabile, il sesto mi ero convinto che in realtà, a modo suo, funzionava come una Rolls”. Uno scrittore spagnolo a spasso per Napoli

FELIX DE AZUA, EL PAIS, SPAGNA

Per la prima volta in vita mia, arrivando a Roma ho avuto la sensazione di trovarmi a Zurigo. Avevo appena passato una settimana a Napoli, e credo che persino Istanbul mi sarebbe sembrata un posto tranquillo. Del resto si sa: “Napoli è l’unica città orientale a non avere un quartiere europeo”.
La frase di solito viene attribuita a Graham Greene, ma in realtà appartiene a un giornalista dell’Ottocento, Domenico Scarfoglio, almeno stando a Norman Lewis, autore di un capolavoro dell’antropologia meridionale, Napoli 44, il diario che scrisse quando era membro dei servizi di informazione britannici durante la liberazione d’Italia. In quel lontano 1944, quando Lewis, aiutato dalla Quinta flotta americana e dal luogotenente di Luky Luciano, Vito Genovese, occupò una città abitata da due milioni di esseri famelici, Napoli era un frammento d’Oriente. Eppure non era ancora stato inventato il motorino o, per dirla in buon italiano, lo scooter. Da allora, l’enorme capitale del sud non ha fatto che spostarsi sempre piú a Oriente. Tranne che negli ultimi due anni.
Come Norman Lewis, cinque ore dopo aver calpestato il suolo napoletano anch’io volevo filarmela il prima possibile, però dopo una settimana sarei rimasto a viverci. Il traffico è demenziale, l’affollamento delle strade è paragonabile a quello di Calcutta, gli alberghi sono preistorici, la delinquenza onnipresente, la povertà, la sporcizia, il frastuono, il caos colpiscono il nuovo arrivato con un pugno di ferro e di fumo.
Quella stessa notte cominciai ad assistere a scene che sembravano riprese dal cinema americano degli anni Cinquanta. Dopo essere stato efficacemente espulso dall’albergo perché mancava la luce, mi attenni all’obbligatoria passeggiata sul lungomare fino al Castel dell’Ovo, una gigantesca fortezza normanna situata sulla roccia marina, e già durante la passeggiata restai affascinato da un primo spettacolo popolare, lo spiegamento delle napoletane - nonne, madri o figlie - abbigliate in attillatissimi pantaloni neri, con corpetti che esibivano l’ombelico sommerso nelle carni turgide e capigliature africane.
Avevano tutte le labbra dipinte color marrone fegato e incedevano tutte su coturni con una piattaforma di circa cinquanta centimetri. Una scena da non perdere. Intorno a loro svolazzavano dei ragazzi magrolini, rapati, con crestine, occhiali da sole (soprattutto di notte) e piercing, molto simili a spermatozoi danzanti intorno all’ovulo, come quelli disegnati su alcune stampe di anatomia. Distratto com’ero, improvvisamente mi parve che qualcosa fosse cambiato; il mare, a Margellina, era calmo come un vassoio d’argento, però il cielo d’un tratto si era incendiato. I massi imponenti del castello, dorati dalla luce, sembravano i bastioni di una fortezza in terra santa. Ai piedi del castello, un porto discreto con decine di imbarcazioni ormeggiate ospitava una serie di ristoranti come quelli che anni fa si incontravano sulle spiagge della Barceloneta. Intorno a me si muovevano con grandeur diverse divinità mediterranee, Astarte, Ishtar, Athirat, con il loro seguito di spermatozoi.
Il Vesuvio in miniatura
Solo quando mi sedetti a un tavolo apparve la minaccia: un cantante napoletano da manuale, già avanti con gli anni, pancione sporgente sulla cintura, chitarra decorata, baffetti alla Gilbert Roland, braccialetti d’oro e l’aspetto inequivocabile di chi si prepara a cantare per tutta la notte. ‘O sole mio si installò davanti ai tavoli e rimase ad ascoltare per qualche istante lo sciabordio delle imbarcazioni e il gradevole cozzare delle chiglie. Poi domandò alla clientela nativa se c’erano richieste per quella notte. In effetti, ce ne furono.
Ma devo dire che non cantò ‘O sole mio neppure una volta. La prima richiesta fu una cavatina di Donizetti e immediatamente capii che quell’uomo avrebbe potuto trionfare in un teatro lirico. La sua voce mi ricordava quella del giovane Alfredo Kraus, anche se non lasciò il sigaro neppure in piena cavatina. Non avevo mai visto uscire del fumo dalla gola di un tenore durante un’interpretazione. Era come un Vesuvio in miniatura. Il fumo sgorgava piano, piano, e restava sospeso nell’aria come il suono inverosimile di quella voce prodigiosa; poi si disfaceva in spirali sottili spinte dagli ultimi ghirigori del canto. Dopo di che accendeva un altro sigaro.
Una delle tante sorprese che riserva questa città sorprendente è la competenza professionale dei suoi abitanti. Deve essere stato difficilissimo per questo insieme di tre milioni di cittadini legali e altrettanti illegali, dotati di una capacità lavorativa cosí notevole, conseguire la piú perfetta inoperosità collettiva. Perché se i cantanti di taverna sono come le nostre stelle dell’opera, non meno eccellenti sono i cuochi, i librai, gli arcivescovi, gli artigiani di statuette per il presepio (il grande successo di quest’anno: Bossi decapitato da Prodi), i conciatori, i filosofi, i politici, i chirurghi, gli incisori di cammei o i motociclisti. I motociclisti, comunque, sono un caso a parte. I motociclisti sono il non plus ultra.
La circolazione stradale
Se il primo giorno avevo potuto credere che quella città fosse un caos aggressivo, demente e insopportabile, il sesto mi ero convinto che solo le forme erano aggressive e caotiche. In realtà, e a modo suo, la città funziona come una Rolls. Cercherò di spiegarlo con un esempio illuminante: la circolazione stradale, cuore, essenza e capolavoro della cultura napoletana.
Nessuno sa quanti milioni di moto circolino per Napoli, dal momento che la stragrande maggioranza sono illegali. Eppure sono i ciclomotori, i motorini, che impongono la legge. Di regola sono guidati da una coppia di ragazzi fusi in un corpo unico e sudato che i locali chiamano affettuosamente “centauri”. Di solito sono due rapati, oppure un rapato e una dea voluminosa, oppure due dee, una rapata e l’altra voluminosa. Però non è raro il terzetto: padre voluminoso, madre molto voluminosa e bimbo o bimba rapatini. Sono arrivato a vederne fino a cinque in confortevole equilibrio sul loro motorino: nonna non voluminosa con creatura in braccio, piú il solito terzetto familiare, a ottanta all’ora e contromano nell’affollatissima via Roma all’ora di punta.
Ciò che a una prima impressione può sembrare insopportabile, soprattutto per il livello di inquinamento acustico, può trasformarsi nella maggiore attrattiva della città, purché il forestiero abbia vena di antropologo. Si possono passare ore e ore osservando l’incredibile abilità con cui i centauri e le centaure schivano ogni genere di ostacoli umani, animali, vegetali, minerali e di ordine pubblico, senza procurarsi neppure un graffio. Gli interscambi lussuriosi di centauri motorizzati e divinità mediterranee su piattaforma mentre sfiorano autobus e scolaretti a cento all’ora, resuscitano un morto.
E’ chiaro che a Napoli può circolare soltanto chi ci è nato. Tutti gli altri appartengono al ridicolo mondo di chi esita prima di attraversare (il che provoca frenate spaventose), o si premura di rispettare il semaforo (il che blocca il traffico), o vigila con lo sguardo i motociclisti (ma non nel modo giusto, e perciò li depista). I pedoni napoletani attraversano ovunque e in qualunque modo. O meglio, non attraversano: si tuffano nella piscina di ferro, fumo e fragore. Ma prima di farlo hanno emesso una serie di segnali impercettibili a un forestiero e molto simili agli ultrasuoni di alcuni insetti durante l’accoppiamento, che qualsiasi motociclista, conducente di autobus o di camion, qualsiasi triciclo o ambulanza, captano immediatamente. Il forestiero osserva attonito un vecchio zoppo che si fa strada in mezzo a un traffico mostruoso con assoluta serenità, avanzando a scatti come una molla meccanica dal ritmo irregolare, mentre le moto e gli autobus, le macchine e i camion gli sfrecciano intorno a centoventi all’ora, indovinando in poche frazioni di secondo dove si spingerà la prossima convulsione della gamba slogata o la capricciosa deriva del vecchio pazzo.
La circolazione stradale, somma opera d’arte napoletana, è uno spettacolo paragonabile soltanto ad alcune difficilissime scene del Lago dei cigni, dirette con pugno d’acciaio da vecchi discepoli di Marius Petipa.
Dopo qualche giorno appare evidente che Napoli non è un posto caotico, ma una città dotata di un altro genere di ordine, piú sofisticato e complesso del nostro. Il napoletano, che è persona abilissima, sveglia, focosa e di una vitalità contagiosamente vulcanica, si annoia con il codice di circolazione europeo e ha adottato un proprio codice di segnali extrasensoriali. Il codice di circolazione europeo, rispetto al suo, gli sembra un’invenzione francese: una cosa ingegnosa, persino piacevole, ma di cui si può fare a meno; un po’ come il bidè. Mi affretto ad aggiungere che questo sistema funziona benissimo, perché ci sono molti piú paralitici da motocicletta a Barcellona che a Napoli, anche se il nostro mercato delle moto è sí e no un quarto e il nostro parco conducenti è completamente coperto dal casco, ammennicolo che i centauri napoletani usano per bollirci la pasta.
Quale conclusione dobbiamo trarre da questo stato di cose? Semplicissimo. Il codice e la legge, si tratti della circolazione o di qualsiasi altra materia regolamentabile, migliorano la vita delle società solo quando queste sono arrivate all’individualizzazione. Né prima né dopo. Credo che un’affermazione cosí categorica esiga una spiegazione, e vorrete perdonarmi se assumo pose pedagogiche.
Dove regna la tribú
In città come Valenza o Parigi, sebbene persistano residui tribali nelle periferie, vive una maggioranza di individui raggruppati in masse. Le masse assumono varie sembianze e possono essere, ad esempio, gruppi di tifosi di calcio, dimostranti contro il terrorismo, iscritti a un partito politico, scioperanti della compagnia dei telefoni, membri di una congregazione mariana e moltissimi altri. A loro volta, gli individui si tengono a distanza dagli altri individui delle diverse masse ricorrendo a una legge oggettiva e neutrale, La Legge. In questo modo non devono spaccarsi la faccia ogni volta che vogliono attraversare una strada o portare a passeggio il cane. La legge garantisce la libertà di ogni cittadino della massa totale individualmente preso. Questo, almeno, in teoria.
Ma Napoli non è arrivata allo stadio individuale (o lo ha già superato), o forse è tornata allo stadio di specie (o lo ha già raggiunto). A Napoli esiste solo la specie, e la massa non conta niente. L’individuo postnapoleonico è un ornamento teorico e un po’ effeminato tipico delle democrazie industriali. A Napoli conta solo la tribú.
A Madrid o a Milano, non rispettare un semaforo è pericoloso perché lo accende e lo spegne il diritto individuale ad attraversare senza essere ammazzati. Il semaforo di Napoli, invece, è un’imposizione coloniale e i napoletani lo vedono come il ritratto di un imperatore lontano e incomprensibile; un totem adorato da gente un po’ beota, e a cui non bisogna prestare la benché minima attenzione. La legge, a Napoli, non è una garanzia di libertà individuale, ma un costume barbaro e inaccettabile.
Una guerra
Come avrete già intuito, con una simile circolazione stradale, la rimanente offerta culturale napoletana, pur essendo una delle migliori d’Europa, manca di attrattiva. Ho cercato con tutte le mie forze di concentrarmi davanti alla celebre Danae di Tiziano a Capodimonte (era questo il motivo del mio viaggio), ma non mi è stato possibile. Ho girovagato nel Museo archeologico, forse il miglior museo di antichità greche e romane d’Europa, ma con il susseguirsi dei capolavori e della loro eterna e immarcescibile bellezza, cresceva la mia impazienza. La verità è che non vedevo l’ora di scappare da lí per andare a vedere come procedeva la guerra della strada. Perché, ormai è giunto il momento di dirlo, Napoli era sul piede di guerra.
Le ostilità erano state aperte dal sindaco, Antonio Bassolino, un comunista illuminato come ormai non se ne trovano piú e come vorremmo averne anche noi. In questo momento in Europa esistono due lotte urbane piene di eroismo, e devo dire che la ricostruzione di Sarajevo è un gioco da bambini rispetto alla ricostruzione di Napoli avviata da Bassolino. I risultati sono spettacolari, e la città li vive con passione vesuviana.
Cosí, ad esempio, il 15 settembre, il quotidiano La Repubblica titolava la sua edizione napoletana con una frase suggestiva: “La guerra dei motorini”. Cinquanta posti di blocco distribuiti nella città vecchia tenderanno una rete in cui rimarranno intrappolati tutti i motociclisti illegali. I trasgressori saranno passibili di multa, le loro moto verranno confiscate (un atto paragonabile all’evirazione) e saranno denunciati al Tribunale dei minori quei padri che guidano con uno o piú figli in grembo.
La scintilla che ha scatenato la guerra è lo scippo, 400 circa solo nella prima quindicina di agosto. Lo praticano i centauri, la cui abilità con le moto truccate è superlativa. Tu cammini con la borsa o la videocamera appese alla spalla e ti spariscono senza bisogno di sollevare il braccio. Continui a camminare con la mano in tasca senza accorgerti che non hai piú la borsa né la videocamera, e certe volte nemmeno la giacca. E’ qualcosa di portentoso. All’operazione contro i motorini partecipano circa cinquecento uomini fra vigili urbani, carabinieri, poliziotti e agenti della guardia di finanza.
Esco, quindi, in tutta fretta dal museo per vedere come procede la guerra. I controlli bloccano le strade che segnano il perimetro della città storica, nel cui ventre si trova il quartiere degli spagnoli, un enorme labirinto dove si concentra la malavita, quella vera. I motorini, allineati come alla griglia di partenza di una gara, con i motori che girano al massimo, non si danno per vinti e, nonostante i minacciosi controlli della polizia (o per sfidarli), cercano di incunearsi a tutta velocità approfittando della minima distrazione degli agenti. Il rumore è terribile, i motorini vanno e vengono come comanche a cavallo che cercano di penetrare nel forte. Le perdite sono numerose. Bassolino ha formato un corpo di poliziotti segreti, in sella a macchine tremende da mille centimetri cubici, che danno la caccia a tutti i selvaggi che osano sfidarli.
A due metri da me, una Renault Mégane molto ammaccata è rimasta intrappolata nel controllo fra via Toledo e via Diaz. Riesco a distinguere chiaramente il conducente: occhiali da sole, rapato, crestina, barba di una settimana, sulla venticinquina, piercing. Senza muovere un muscolo comincia a farsi largo con colpi nervosi, spingendo avanti e indietro i vicini che lo bloccano. Questi ultimi si spostano di qualche centimetro senza nessuna protesta. Quando riesce a farsi un minimo di spazio, dà un colpo incredibile al volante seguito da un’accelerata assordante e scappa a tutto gas sul marciapiedi, contromano e senza sfiorare un solo passante. Immediatamente volano sulla mia testa due potenti Honda 750 spuntate dal nulla. Ogni moto è cavalcata da due poliziotti segreti fusi in un corpo solo, (occhiali da sole, rapati, crestine, piercing), pistola in resta. Sono la versione adulta dei motorini, e la popolazione (io compreso) si gode immensamente questo scontro. Gli eroi si perdono nell’orizzonte di via Roma. Il marciapiedi è rimasto vuoto, però non c’è un solo ferito. Le madri con bambino, piattaforma e capigliatura tornano a occuparlo. Come volete che mi concentri su Tiziano?
Il mattino dopo corro a leggere le notizie. La Repubblica informa che nel primo giorno di guerra sono state sporte 1.200 denunce, confiscati 130 motorini e si ha notizia di soli quattro scippi. “Lo facciamo per voi”, confessa il sindaco ai giovani centauri. Ma su un’altra pagina appaiono le dichiarazioni di Carmine, un ragazzo rapato, con crestina, occhiali da sole e piercing, capo di una banda del quartiere spagnolo: “Studieremo la rete e troveremo i suoi punti deboli. Per il momento non andiamo in vacanza. In ogni modo, qui non si azzardino a entrare. Il quartiere è nostro”.
Non mente e non millanta. Il cuore di Napoli è una città a parte formata da labirinti minacciosi. I suoi inquilini lo chiamano la “casba”, e solo fra piazza Trieste e via Diaz conta diciotto vicoli, autentici corridoi dove sfuggire all’inseguimento della polizia è questione di secondi. Ogni vicolo è controllato da un venditore di kleenex che comunica con il successivo, formando un’efficacissima rete di vigilanza.
Verso Occidente
Alcuni segnali, tuttavia, fanno pensare che poco a poco si stia aprendo una crepa nell’ultima città orientale del continente europeo e che attraverso questa crepa possa insinuarsi l’Occidente. Tanto per fare un esempio, anche qui ha attecchito energicamente il telefono mobile, ribattezzato telefonino. Usa il telefonino persino il mendicante del mio albergo, che è un lebbroso a cui, peraltro, mancano entrambe le orecchie. Il telefonino sta individualizzando la gente che fino a due giorni fa comunicava gridando o attraverso la rete di venditori di kleenex, la cui efficacia è molto superiore a quella della compagnia dei telefoni. L’immagine piú emblematica di una società di masse formate da individui è un viale urbano in cui una cinquantina di votanti parla col telefonino all’altra cinquantina della strada di fronte.
E’ possibile che Napoli finisca col diventare, come Saragozza o Londra, una città di individui-massa che attraversano solo se i semafori segnano verde e dove le automobili si fermano quando le anziane (tutte attaccate al loro telefonino) attraversano sulle strisce pedonali. Se questo un giorno succederà, gli impresari turistici del nostro paese potranno cominciare a tremare. Come si può competere con una città con due baie? Con quattro funicolari che ti portano in quattro città diverse con panorami mozzafiato sui porti, le isole, l’immensa distesa urbana, le barche che solcano il mare azzurro cobalto e il Vesuvio sullo sfondo come una divinità infernale e protettrice? Con Capri a un’ora, Ischia a mezz’ora e Sorrento a tre quarti d’ora di navigazione? Con Pompei ed Ercolano a un salto di metropolitana? Con il complesso barocco piú importante del mondo e la gastronomia piú squisita d’Italia? Con le Porte dell’Inferno e l’antro della Sibilla cumana nel circondario? E con queste signore sulle loro piattaforme?
Il vero miracolo è che Napoli non abbia già divorato tutto il turismo mediterraneo degli ultimi vent’anni. E’ quello che ha capito un comunista illuminato come Bassolino, e poiché ormai a produrre dividendi sono soltanto le industrie culturali e del tempo libero (se esiste ancora una qualche differenza), ha cominciato, nella piú pura tradizione marxista, a creare individui e masse in questa caparbia roccaforte della tribú e della specie. Spingere Napoli verso Occidente è l’ultima possibilità per dare da mangiare a tutta la sua popolazione, vista la distruzione industriale che qui si è prodotta.
Chiunque prenda un treno e percorra i dintorni di Napoli in direzione di Pompei rimarrà di sasso. Un deserto di rifiuti industriali di quasi un centinaio di chilometri indica la gravità del depauperamento napoletano. Questo paesaggio di desolata ecatombe è talmente brutale che quando si arriva a Pompei sembra di stare a New York. Gli scheletri di fabbriche e stabilimenti, i ferri contorti e ossidati formano una giungla in cui si incrostano minuscole casette semiultimate o semidistrutte. Nessuno sa chi si rifugia in questa giungla di cemento e di ossido, o se sia stata occupata dagli extraterrestri.
Per salvare i tre milioni di napoletani (censiti) dal loro suicidio non c’è altro rimedio che trasformarli in individui. Questa è la guerra di Bassolino. Delle due l’una: o i centauri e le altre divinità orientali, o le pizze impeccabilmente occidentali. L’anno prossimo torneremo per verificare gli spostamenti di truppe e trincee. Ogni scusa è buona.
(G.C.)


UN LIBRO

POLITICI, CAMORRISTI, IMPRENDITORI

“Tra il 1987 e il 1993 ho passato molti giorni e molte notti nella sala dei Baroni del Maschio Angioino a Napoli. Ero consigliere comunale, eletto nella lista comunista. (...) Ricordo tra gli altri un assessore anziano che, dal seggio piú alto della storica sala invitava i consiglieri a contenere gli interventi: ‘Altrimenti andiamo a finire a iosa’. O un assessore che replicava alle critiche di parcellizzazione delle competenze del settore scolastico, protestando di non prendere tangenti. E mentiva pure”. Cosí comincia lo studio Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori di Francesco Barbagallo (Einaudi 1997, 16.000 lire).


EL PAIS

CONSIGLI AGLI SPAGNOLI IN VIAGGIO

“Quando la sirena Partenope si installò nella baia di Napoli facendo innamorare i viaggiatori con le sue dolci melodie non sapeva ciò che faceva. Secoli piú tardi l’incanto era cosí forte che nessuno riusciva a sottrarsi, ‘bisogna andare a Napoli per immergersi nella giovinezza, per amare la vita. Qui tutto è allegro e facile’, disse un giorno Flaubert”. Cosí comincia, sulle pagine del País, una piccola sezione di consigli ai viaggiatori spagnoli nella città partenopea. Come arrivare: dalla Spagna non ci sono voli diretti, ma il tragitto in macchina da Barcellona, passando per la Costa azzurra francese, può essere molto piacevole. Come muoversi: non è facile circolare in macchina e prendere un taxi può rivelarsi molto dispendioso, a causa del traffico o di qualche indecifrabile supplemento inventato dal tassista. Gli autobus e i tram attraversano la città in lungo e in largo ma non esiste una piantina dei trasporti pubblici. Gastronomia: mozzarella, sanguinaccio, pesce fritto e sfogliatella sono le specialità da assaggiare assolutamente.



© L'Internazionale 1997

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