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QUALE «FUTURO» PER LE DUE SICILIE?

Il testamento politico di Francesco II di Borbone

di FRANCO NOCELLA
Segretario della Feder-Mediterraneo
fidm@ics-vdc.it
Giornalista, del Comitato promotore di «Rinascita Meridionale»

Quando, alla vigilia della sua partenza da Napoli, nei primi giorni del settembre 1860, Francesco II di Borbone, ultimo sovrano del Regno delle Due Sicilie, disse che - dopo l'annessione al Piemonte - il Nord non avrebbe lasciato ai meridionali «neppure gli occhi per piangere» fu facile profeta e 134 anni di storia «unitaria» stanno lí a dargli ragione.

Qualche cifra può essere utile a capire come la previsione del giovane Re sia stata esatta e come la situazione di sottosviluppo e di emarginazione provocata dalla spoliazione economica seguita all'annessione sia ancora ai giorni nostri un dato caratterizzante per le 34 province italiane corrispondenti al territorio dell'antico Reame del Sud. Se si considera che, a tutt'oggi, soltanto meno del 20% dei beni consumati nel Meridione sono prodotti dai meridionali (ed in Sicilia questa percentuale si dimezza al 10%), significa che aveva ragione da vendere Nicola Zitara - intellettuale ed autonomista calabrese - quando, nel 1971, scrisse un libro dal titolo emblematico: «Unità d'Italia, nascita di una colonia».

A dare conferma della giustezza delle previsioni fatte da Francesco II, per la verità, sono stati in molti: politici di ogni tendenza, economisti, pensatori e giornalisti hanno ripetuto per oltre un secolo quello che l'ultimo Re delle Due Sicilie aveva anticipato, con sconcertante lucidità, prima di qualsiasi altro. Il liberale Giustino Fortunato, il 2 settembre 1899, scrisse: «L'unità d'Italia ha rappresentato la rovina economica del Mezzogiorno». Ed aggiunse: «Il governo italiano è stato vigliacco con il Mezzogiorno. Il Settentrione capitalista e militarista ha fatto i suoi affari, restando al timone dello Stato, grazie alla degradazione politica del Mezzogiorno». Qualche tempo piú tardi, Francesco Saverio Nitti, anche lui liberale, nel suo libro «Nord e Sud», affermava: «L'unità d'Italia non poteva esser fatta, se non con il sacrificio del Mezzogiorno». Il 3 gennaio 1920 il comunista Antonio Gramsci, in un articolo pubblicato sul giornale «Ordine Nuovo», scriveva: «L'Italia settentrionale ha soggiogato l'Italia meridionale e le isole, riducendole a colonie di sfruttamento».

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La «piovra» del Nord

Un decennio piú tardi, lo stesso Gramsci, nel libro «Alcuni temi della questione meridionale», tornava sull'argomento: «La 'miseria' del Mezzogiorno era 'inspiegabile' storicamente per le masse popolari del Nord. Esse non capivano che l'unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale città-campagna. Cioè, non capivano che il Nord concretamente era una 'piovra' che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l'impoverimento dell'economia e dell'agricoltura meridionale».

Andrea Finocchiaro Aprile, animatore del movimento separatista siciliano, nel secondo dopoguerra, confermava: «L'industrialismo del Settentrione ci ha ostacolato e sfruttati in ogni modo e questa condizione di cose dovrà una buova volta cessare». Dello stesso parere il commediografo Guglielmo Giannini che, in una lettera pubblicata l'8 agosto 1945 sul giornale «Uomo Qualunque», scrisse: «Nell'Italia del Nord si prepara la ripresa della stessa musica: una metà dell'Italia allo stato coloniale, l'altra metà moderna, attrezzata e parassitaria». Il 9 giugno dello stesso anno il giornale romano «Il Tempo» parlò dell'esistenza di due Italie: «L'Italia della banca, della speculazione e dell'industria protetta e l'Italia semicoloniale, della miseria e dell'emigrazione». Alberto Consiglio, deputato monarchico e direttore del giornale napoletano «Risorgimento», il 20 luglio successivo, affermava: «La protesta del Sud non va indirizzata contro il governo, ma contro il proletariato privilegiato del Nord». E se il proletariato settentrionale doveva essere considerato privilegiato, è da figurarsi quanto dovessero esserlo le imprese industriali da cui esso dipendeva...

Oggi, mentre annualmente si sfogliano i rapporti Svimez che documentano il crescente divario economico fra Nord e Sud, sembra che - dopo cent'anni di sterili imprecazioni contro l'Italia «tenuta unita con il filo spinato», per usare le parole di Luigi Settembrini - molti si stiano cominciando ad interrogare sulla fondatezza del modo in cui ci è stato rappresentato il processo di unificazione italiana e sulla necessità di riscrivere completamente la storia del Meridione, almeno per quanto riguarda gli ultimi tre secoli. In questo contesto, è evidente che non può essere eluso l'obbligo di reinterpretare in chiave del tutto nuova il ruolo che nella storia meridionale ha avuto la monarchia borbonica.

Il suo tentativo di sottrarre il Sud italiano alle mire delle potenze imperialiste (l'Inghilterra coloniale e Francia napoleonica) che, allora, cercavano - a turno - di conquistare con ogni mezzo il controllo economico di tutto il Mediterraneo fu chiamato «protezionismo». Il suo rapporto privilegiato con i ceti popolari, in antitesi con gli interessi feudali dei proprietari terrieri e con le velleità di una borghesia economicamente rapace quanto politicamente immatura e velleitaria, fu presentato come «paternalismo».

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La nascita di una colonia

Il «protezionismo» ed il «paternalismo» dei Borboni furono bollati dalla storiografia risorgimentale quali espressioni di una politica miope e retrograda. Si trattò di un modo - tutt'oggi utilizzato - per mascherare la realtà, nell'intento di appannare l'evidenza della spoliazione economica del Meridione seguita alla conquista militare piemontese del 1860-61 e per nascondere la verità di un sistema politico che concentrava il potere proprio nelle mani di quei gruppi economici (i proprietari terrieri eredi del feudalesimo) e sociali (la famelica e miope borghesia dei «paglietti») contro cui la monarchia borbonica aveva fatto di tutto per difendere i ceti popolari che, dal suo sorgere, ne erano stati il baluardo.

Da quasi un secolo e mezzo le regioni meridionali sono divenute, nello stesso tempo, riserva di manodopera a basso costo e primo mercato delle aree industriali del Nord. Nell'ultimo dopoguerra, a tutto questo s'è aggiunta la farsa di un intervento straordinario concepito non come meccanismo di aiuto allo sviluppo, ma come sistema di drenaggio finanziario a vantaggio dei gruppi settentrionali di potere economico. Tutto questo non è il frutto del caso. Ci sono delle cause ben precise e c'è una data d'inizio che, piaccia o no, è questa: 1860.

Quando si parla delle Due Sicilie è inevitabile rivolgere lo sguardo al passato. E' necessario analizzare ed interpretare una storia che è stata deliberatamente deformata. Sarebbe opportuno, però, fare uno sforzo per guardare anche al futuro. Uno sforzo per immaginare quale sviluppo avrebbe potuto avere lo stato meridionale se avesse potuto conservare la sua autonomia. Quale evoluzione il Reame del Sud avrebbe potuto avere se la sua storia non fosse stata spezzata dalla conquista militare piemontese, voluta e sostenuta dalle potenze imperialiste dell'epoca, e se il Meridione continentale ed insulare non fosse stato trasformato in quella che Nicola Zitara, cifre alla mano, considera senza ombra di dubbio «una colonia», riprendendo ed argomentando in forma stringente il giudizio che, prima di lui, avevano espresso altri uomini politici e pensatori delle piú disparate tendenze culturali.

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Una storia da riscrivere

Le direttrici di questo sforzo devono essere necessariamente due: quella economica e quella politica. Anche se è evidente che bisogna considerare i due aspetti in maniera convergente, dal momento che la proiezione immaginaria nel futuro dell'antico stato delle Due Sicilie non può risultare se non da una sintesi di economia e politica. Dal punto di vista economico un grande aiuto viene da studi puntuali, anticonformisti e - per questo - assai suggestivi come, ad esempio, quelli pubblicati nel 1976 per iniziativa di Angelo Mangone sotto il titolo: «L'industria del Regno di Napoli 1859-60».

Da queste analisi risulta che l'apparato produttivo meridionale, al momento dell'annessione, aveva raggiunto un livello di sviluppo tale che, se non ci fosse stata la traumatica interruzione di quell'esperienza, l'economia del Sud avrebbe potuto avviarsi con buone speranze di successo verso il suo definitivo decollo. Una verità questa che, per lungo tempo, si è cercato di nascondere. Basti pensare che - pare per ordine di Camillo Benso di Cavour, il... tessitore - dopo la partenza di Francesco II dalla capitale del Regno i registri navali napoletani furono distrutti.

Pertanto, come riferisce Zitara nella sua utile ricerca, su questo aspetto della storia economica italiana sono state le storie locali a fornire informazioni piú diffuse ed istruttive di quanto abbia fatto la saggistica di alto rango. Questa dovrebbe spiegare cosa facevano circa 20.000 imbarcazioni nel 1861.

Nel significativo sviluppo della marineria pre-unitaria, il prmo posto, con oltre 12.000 imbarcazioni di diverso tonnellaggio, spettava al Regno delle Due Sicilie che, come si sa, si presentava come la quarta potenza navale d'Europa. Si legge sui libri che vengono fatti circolare nelle scuole: i commerci languivano. Il De Agostinis, che poteva osservare le cose con i suoi occhi, è di parere contrario. E ci sono ben 12.000 imbarcazioni, per circa 220.000 tonnellate di stazza, a confermare il suo punto di vista. Nelle storie locali, pubblicate a fiumi in tutto il Meridione, non si legge altro che: «attivo centro commerciale sin dall'epoca borbonica». Ma cosa imbarcavano, allora, tutte quelle navi. Il profumo dei fichi d'india?

E' evidente, pertanto, che sulla storia del Regno delle Due Sicilie c'è stato per lungo tempo (e, purtroppo, c'è ancora oggi) chi ha avuto (ed ha) l'interesse di barare, di cambiare le carte in tavola. Perchè? E' semplice: bisognava creare «a posteriori» delle giustificazioni per tutto quanto fu fatto a metà del secolo scorso nell'intento di privare il Meridione della sua autonomia, per predarne le risorse e per cancellare - a vantaggio di chi ne volle la conquista militare - il suo apparato produttivo e le sue significative possibilità di sviluppo. Un'opera di contro-informazione, pertanto, appare decisamente fondamentale.

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Dal passato al futuro

Piú difficile, ma egualmente necessario, è lo sforzo di immaginare gli ipotetici scenari che avrebbero potuto caratterizzare il futuro delle Due Sicilie per quanto riguarda l'evoluzione politca dell'antico Stato meridionale, nel caso in cui al Regno del Sud fosse stato concesso di avere un futuro. Infatti, la fantasia, perchè le ipotesi possano avere un qualche fondamento, deve necessariamente far perno su elementi storici precisi. In questo contesto, pertanto, la parola non può che essere attribuita a Francesco II, l'ultimo Borbone che sedette sul trono di Napoli e Palermo.

Un Re assai giovane, ma coraggioso ed onesto, ingiustamente calunniato da chi aveva fretta di chiudere per sempre un capitolo decisivo della storia del Meridione. Profondamente religioso («il rispetto al culto santo dei nostri padri è chiamato fanatismo»), era convinto dell'importanza che l'autonomia del Sud poteva avere per lo sviluppo delle regioni meridionali e, per quasi un decennio, dall'esilio romano tenne le fila della resistenza popolare contro il nuovo ordine (costata la vita ad almeno 20.000 uomini, donne e bambini appartenenti, per lo piú, ai ceti socialmente piú deboli dell'ex Reame) che i signori del Nord ed i loro amici del Sud (i «galantuomini») non esitarono a chiamare «brigantaggio».

E' legittimo chiedersi quale sia stato il suo testamento politico. Quali prospettive, quali idee, quali speranze per il futuro possono essere ricavate, o anche semplicemente intuite, attraverso i suoi scritti ed i suoi comportamenti? Preso atto che nulla di tutto questo può essere letto sui libri di storia scritti dai vincitori, bisogna cercare negli archivi e far riemergere dai polverosi scaffali vecchi proclami e lettere ingiallite dal tempo.

Nel proclama emanato l'8 dicembre 1860, da Gaeta assediata dalle soverchianti forze del generale Cialdini, il giovane Re parlò delle «libere istituzioni, che io avea dato». Si riferiva all'atto sovrano che il 25 giugno precedente aveva sottoscritto nella Reggia di Portici, con cui era stata ripristinata la costituzione del 1848. Un atto di opportunismo politico, un estrema tentativo di salvare la monarchia come insinuarono i conquistatori? Francesco II lo nega decisamente. Riferendosi alle istituzioni rappresentative, tiene a precisare nel suo proclama: «Era mio desiderio svilupparle».

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Sviluppare le istituzioni

Quindi, l'idea di Francesco II non era solo quella di riprendere il vecchio discorso costituzionale in modo statico e formale, ma quella di portarlo avanti in maniera articolata, flessibile e dinamica. Cioè, il giovane sovrano pensava - in una fase in cui la possibilità di un ribaltamento della situazione non poteva ancora essere esclusa in assoluto: si sperava in un intervento francese presso il Piemonte o nel successo dell'insurrezione popolare nelle province meridionali - alla necessità di aprire le porte ad un'evoluzione politica in sintonía con le esigenze di rappresentatività e di autogoverno del paese.

«Ai piú arrabbiati reazionari il proclama non piacque, per la riaffermata fedeltà ai principi liberali e costituzionali», ha detto Pier Giusto Jaeger, autore di una biografia di Francesco II intitolata «L'ultimo Re di Napoli», scritta 92 anni dopo la sua morte. Nonostante ciò, appare chiaro che il giovane erede della dinastia borbonica sognava di dar vita ad una sperimentazione politica capace di individuare nuove formule di assetto istituzionale e nuovi punti di equilibrio fra i differenti interessi presenti all'interno della società meridionale. Ben conscio dell'importanza della tradizione, egli non la viveva in modo cristallizzato. La considerava come una solida base di partenza per muoversi in avanti, sulla strada del rinnovamento.

Una disposizione non nuova, questa, per i Borboni delle Due Sicilie: già 22 anni prima, infatti, suo padre Ferdinando II espresse con chiarezza la sua intenzione di procedere ad un costante aggiornamento delle istituzioni costituzionali d'intesa con il Parlamento. Se ciò non avvenne, come riconobbero anche personaggi come Luigi Settembrini, la responsabilità fu soltanto da attribuirsi alla miopía culturale, all'immaturità politica ed anche all'ambiguità della classe dirigente liberale di quel periodo.

Una parte di essa mirava, infatti, alla conquista del potere per salvaguardare privilegi e posizioni sociali contrari agli interessi dei ceti popolari del Regno che i Borboni intendevano garantire. I gruppi borghesi che diedero vita all'insurrezione del 1848, causa del naufragio del primo esperimento costituzionale, apparvero disposti a tutto pur di conseguire il loro scopo, anche se il prezzo di ciò sarebbe stato, come poi avvenne nel 1860, la svendita del paese al nascente capitalismo del Nord.

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Riforme e progresso

«Non ho mancato certo alle mie promesse», tenne a sottolineare Francesco II e, per essere ancora piú chiaro, al di là di ogni possibile dubbio, aggiunse: «Qualunque sia la mia sorte, resterò fedele ai miei popoli e alle istituzioni che ho loro accordate». Riferendosi, poi, alle particolari esigenze del popolo siciliano, ricordò: «Mi preparavo a guarentire alla Sicilia istituzioni libere, che consacrassero con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica».

Una visione moderna ed anticipatrice quella che il Re napoletano aveva del futuro: una organizzazione federale delle Due Sicilie, il cui assetto unitario sarebbe stato garantito in modo flessibile dal ruolo equilibratore della monarchia borbonica. L'ultimo sovrano del Medio Evo, come hanno scritto i suoi detrattori? Non sembrerebbe proprio, a leggere le sue parole: «Ho lavorato con ardore alle riforme, ai progressi, ai vantaggi del paese».

A quale paese moderno avrebbe potuto essere paragonato oggi il Regno da cui il 14 febbraio 1861 fu costretto ad allontanarsi per sempre Francesco II, se la storia avesse avuto un corso diverso?

Con tutte le ovvie differenze e le doverose riserve, si può dire che la prima ipotesi che viene alla mente è quella della Spagna di Juan Carlos, Borbone anche lui. Paese ricco di articolazioni regionali anche assai accentuate (Baschi e Catalani, in prima linea), con caratteristiche analoghe e con una storia comune a quelle del Meridione italiano. Paese cattolico e mediterraneo, tradizionalmente aperto verso il Nord Africa ed il Medio Oriente. Monarchia tradizionalista e democratica, cui tutti hanno riconosciuto il merito di aver saputo gestire senza scosse la transizione dal franchismo al sistema parlamentare, dove si alternano nel governo forze politiche anche radicalmente differenziate e contrapposte (dalla destra alla sinistra) grazie al ruolo di equilibrio garantito da un sovrano borbonico erede di una storia antichissima.

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Una monarchia ... popolare

Quella delle Due Sicilie, se avesse superato l'accerchiamento che portò alla conquista piemontese del 1860-61, sarebbe stata certamente una monarchia... popolare. Francesco Saverio Nitti, che era liberale unitario e non certo un filo-borbonico, nel suo «Nord e Sud» scrisse: «I Borboni tenevano ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo. Nella loro concezione non si preoccupavano di altro se non di contentare il popolo. Bisogna leggere le istruzioni agli intendenti delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia cercava di basarsi sull'amore della classi popolari. Il Re stesso scriveva agli intendenti di ascoltare chiunque del popolo. Li ammoniva di non fidarsi delle persone piú potenti: li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni. Leggendo quei rapporti, quelle lettere, quelle circolari si è spesso vinti da quel caldo senso di simpatia popolare che traspira da ogni frase. Fra il 1848 ed il 1860 si cercò di economizzare su tutto, pur di non mettere nuove imposte: si evitavano principalmente le imposte sui consumi popolari. Il Re dava il buon esempio, riducendo la sua lista civile spontaneamente di oltre il 10%. Fatto questo non comune nella storia dei principi europei, in regime assoluto o in regime costituzionale».

E sempre il Nitti, nella stessa opera, aggiungeva che: «Le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in quà, tutte le volte che hanno dovuto scegliere fra la monarchia napoletana e la straniera, tra il Re ed i liberali, sono sempre state dalla parte del Re: nel 1799, nel 1848 e nel 1860 le classi popolari, anche mal guidate, sono state per la monarchia e per il Re».

«Patriarchi» volgari e demagoghi, come ha sentenziato qualcuno? O i primi, sia pur confusi, assertori di un modello di stato in cui vertice e base popolare si pongono in un equilibrio organico? Se la bilancia - come è opportuno pensare - dovesse pendere per la seconda di queste due ipotesi, si sarebbe autorizzati a immaginare uno sviluppo politico della monarchia borbonica estremamente originale e interessante.

D'altro canto, sotto l'influenza dell'illuminismo settecentesco, non era stato un Borbone, Ferdinando IV, a concepire ed attuare, con la colonia della seta di S. Leucio, quella che il giornalista Antonio Ghirelli ha indicato come il primo modello di «comunità socialista» autogestita della storia europea?

Naturalmente, volendo proiettare l'esperienza del Regno delle Due Sicilie verso quel futuro che gli fu negato, sarebbe lecito pensare che la «tensione» popolare che ha caratterizzato la politica dei Borboni nel XVIII e nel XIX secolo, anche sotto la spinta degli orientamenti manifestati da Francesco II, si sarebbe evoluta e trasformata, contribuendo alla creazione di un sistema politico capace di esprimere a fondo tutta la domanda di autogoverno tipica dei tempi moderni. Un sistema aperto alle nuove esigenze, garantito ed equilibrato dalle regole proprie dell'istituto monarchico, inteso come fattore di unità, centro di moderazione e elemento di continuità.

Passato, presente e futuro nella visione di Francesco II si intrecciavano profondamente. Tradizione e progresso appaiono come le due facce di una stessa medaglia per chi analizza obiettivamente le caratteristiche del Regno delle Due Sicilie e le possibili tendenze di una sua ipotetica evoluzione.

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Tradizione e identità

Rivolgendosi ai meridionali, nel proclama emanato dagli spalti di Gaeta insanguinata dai cannoni rigati degli invasori piemontesi, l'ultimo Re disse: «Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III». Egli rivendicava, quindi, alla sua dinastia la rappresentatività di una storia unitaria multisecolare del Sud continentale ed insulare che risaliva fino all'epoca della prima unificazione normanna.

Tradizione, dunque, intesa sopratutto come esaltazione dell'identità culturale del Meridione: «Io sono napolitano, nato tra voi. Non ho respirato altra aria, non conosco altro suolo che il suolo notío. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno. I vostri costumi sono i miei, la vostra lingua è la mia lingua, le vostre ambizioni sono le mie ambizioni. Sono erede di una antica dinastia che ha regnato su queste belle contrade per lunghi anni, ricostituendone l'indipendenza e l'autonomia».

L'autonomia del Sud con il suo bagaglio di interessi sociali e tradizioni popolari, pertanto, avrebbe costituito il valore supremo che il Regno delle Due Sicilie avrebbe teso a salvaguardare nel caso in cui la sua esperienza politica avesse potuto proseguire: un patrimonio prezioso che - è legittimo pensare - sarebbe stato speso con parsimonia anche in relazione ai processi che, negli ultimi decenni, hanno portato, non senza pesanti contraddizioni e forti ambiguità, alla nascita dell'Unione Europea.

E' difficile immaginare che uno stato meridionale come quello che emerge dal testamento politico di Francesco II avrebbe potuto adattarsi ai compromessi di un'Europa a «due velocità» di sviluppo economico, cosí come hanno fatto i governi «unitarii» italiani che proprio sulla strategia delle «due velocità» hanno costruito le fortune industriali ed economiche del Nord ai danni del Sud dell'Italia.

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La strada dell'avvenire

Ed ecco che economia e politica trovano il loro punto di congiunzione: l'autonomia meridionale come presupposto dell'autogoverno, della scelta di uno specifico modello di sviluppo che, come scrisse Francesco II all'imperatore francese Napoleone III in una lettera inviatagli da Gaeta alla fine del dicembre 1860, deve essere conforme «tanto agli interessi quanto alle tradizioni» dei popoli delle Due Sicilie.

L'intuizione del Re era ben fondata. Lo sviluppo deve fare perno sulla realtà concreta del paese, sulle sue risorse, sulle proprie esigenze, sulla cultura e sulle tradizioni locali. Lo sviluppo deve essere, come si dice oggi, autopropulsivo: aperto alla cooperazione ed alle relazioni commerciali con l'esterno, ma congegnato in modo tale da trovare nella base materiale e culturale del paese a cui si riferisce tutti i presupposti necessari al suo libero e naturale dispiegarsi. In caso contrario, scattano - per usare l'espressione cui hanno fatto ricorso i meridionalisti prima citati - i meccanismi della colonizzazione, fenomeno di cui il Meridione italiano sta pagando lo scotto ormai da tanto tempo.

Detto questo, è lecito chiedersi che cosa sarebbe accaduto, allora, se Garibaldi fosse stato ributtato nel mare di Marsala e se le truppe piemontesi di invasione fossero state inchiodate sul confine del Tronto. Come si sarebbe evoluta la situazione economica del Meridione continentale ed insulare se Francesco II fosse rimasto al suo posto e le regioni del Sud avessero mantenuto la loro autonomía?

Lasciamo che a dare la risposta sia Demetrio De Stefano, scrittore calabrese, autore de «Il risorgimento e la questione meridionale»: «Se il Mezzogiorno fosse stato difeso da una barriera doganale, non solo le vecchie industrie non sarebbero perite, ma altre ne sarebbero sorte, mettendo in moto un meccanismo autonomo di sviluppo che avrebbe assicurato al Mezzogiorno l'assorbimento, parziale in un primo momento, e poi sempre piú esteso, di manodopera espulsa dall'agricoltura, meccanismo tipico delle economie sviluppate».

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Una lezione da meditare

Ma, come si sa, le cose non andarono cosí. L'epilogo della storia è affidato a Nicola Zitara: «Il Mezzogiorno, che prima dell'unità era stato vicino all'autosufficienza, almeno nel campo delle produzioni agricole, divenne sempre piú fortemente tributario nei confronti del mercato settentrionale ed internazionale. L'unificazione del mercato italiano ha spezzato la schiena al Mezzogiorno. Non si può immaginare, infatti, che le regioni meridionali sarebbero rimaste arretrate in eterno. Probabilmente una evoluzione autonoma verso l'economia mercantile e poi verso la produzione industriale le avrebbe salvate dal sottosviluppo e dalla subordinazione coloniale».

Ed ancora: «La causa della rovina del Mezzogorno fu l'unità. Lasciato crescere liberamente, con piena padronanza delle sue risorse, il Mezzogiorno sarebbe arrivato in ritardo allo sviluppo, ma ci sarebbe arrivato. Esso fu, infatti, il primo paese del Mediterraneo ad avviare alcune colture specializzate, in un momento in cui l'agricoltura poteva costituire ancora la base mercantile per l'allargamento dei consumi interni e, quindi, per la produzione industriale. L'unità, invece, insterilendo le risorse del Mezzogiorno, assoggettandone il mercato al capitale padano, assegnandogli una funzione coloniale, ne ha fatto un paese sottosviluppato che versa attualmente in condizioni anche peggiori di parecchi paesi del Terzo Mondo».

«Vi è un rimedio per questi mali e per le calamità piú grandi che prevedo», scrisse - nel suo ultimo, appassionato proclama rivolto ai popoli delle Due Sicilie - Francesco II: «La concordia, la risoluzione e la fede nell'avvenire. Il passato sia pel futuro lezione salutare».

Una lezione, quella che scaturisce dall'esame delle conseguenze derivate dalla soppressione violenta del Regno delle Due Sicilie, ancora oggi ben vivamente presenti nella vita e nell'economia del Sud, su cui tutti i meridionali, senza esclusioni, farebbero assai bene a meditare profondamente. Non per rievocare il passato in modo fine a se steso, ma per meglio definire le strategie del futuro.


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