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L'Internazionale n.240, 10.07.1998©

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Aspettando il Vesuvio

Prima che la Protezione civile e i giornali italiani tornassero a parlare della catastrofe annunciata che pesa sull’area vesuviana, Andrew Gumbel dell’Independent era andato a raccontare il degrado della zona

ANDREW GUMBEL, THE INDEPENDENT, GRAN BRETAGNA

San Vito è un villaggio dove la civiltà non è ancora arrivata. Arrampicato sulle verdeggianti pendici del Vesuvio, fuori Napoli, è un casuale agglomerato di edifici in cemento - alcuni finiti, altri in costruzione - ammassati lungo una serie di sconnessi viottoli in pendenza. Montagne di immondizia che nessuno raccoglie marciscono sotto il caldo, e i canali di scolo si raccolgono in pozzi che contaminano, con i loro veleni, i campi circostanti.
Non c’è una piazza né una chiesa: nessun segno riconoscibile di una comunità cittadina. Non ci sono indicazioni per raggiungerlo né cartelli che ti dicano che ci sei arrivato. Invece del verde, si trovano solo sterpaglia, mozziconi di sigaretta e bottiglie di birra.
A San Vito praticamente tutto è abusivo, dalle case costruite senza permesso, alle auto con targhe non della zona, che fanno pensare o a un numero stranamente elevato di parenti in visita, o, ipotesi assai piú probabile, a un fiorente traffico di macchine rubate. I boss della camorra non fanno mistero della loro presenza, nelle ville ben tenute, protette da recinzioni elettrificate e cellule fotoelettriche. Difficile vedere un ufficiale in uniforme; la polizia, anche quando viene chiamata per un furto o un’aggressione, arriva tardi, o non arriva affatto.
Ma San Vito è qualcosa di piú che una beffa alle autorità civili: è un disastro imminente. Se ci sarà una nuova eruzione del Vesuvio - e prima o poi ci sarà - tutto questo ammasso di cemento e detriti verrà probabilmente sepolto, o spazzato via, come decine di altri simili centri, prolificati con assoluta noncuranza sui fianchi del vulcano.
L’ovvietà della catastrofe
A causa della quasi totale assenza di pianificazione urbana, dello sfrenato disprezzo per l’ambiente, della grave crisi degli alloggi, e dell’orgia di speculazione edilizia abusiva degli ultimi trent’anni, le circa 570mila persone, che oggi vivono nelle stretta striscia di terra fra il Vesuvio e il Golfo di Napoli, rischiano di vedere le loro case, se non le loro vite, distrutte da un’ondata di lava incandescente e cenere.
La catastrofe, quando arriverà, avrà due effetti: il trauma dell’eruzione in sé, ovviamente, e il disastro causato dall’uomo che sicuramente seguirà.
Quando i cittadini di San Vito e degli altri centri collinari fuggiranno verso la pianura costiera, si ritroveranno in uno degli agglomerati urbani piú densi e gravemente congestionati del mondo. L’unica via di fuga è l’autostrada a quattro corsie che collega Napoli a Salerno, costeggiando le antiche città fantasma di Ercolano e Pompei. L’autostrada, sempre bloccata dal traffico, può essere raggiunta solo attraverso strette rampe di accesso, piene di curve e ostruite da caselli per il pedaggio. Basta pensare al sangue costretto a fluire attraverso un’unica arteria gravemente sclerotizzata per avere un’idea dell’inevitabile risultato: un totale collasso del sistema.
“Quando il Vesuvio erutterà di nuovo sarà un cataclisma”, dice Pietro Craveri, docente dell’Università di Napoli. “Si tratta della piú densa area urbana d’Europa: la si può paragonare solo al Cairo o a Calcutta. È una bomba a orologeria, che aspetta solo di esplodere”.
La potenziale catastrofe è ben presente nelle menti dei circa quattro milioni di persone che vivono nell’area di Napoli. Un mese fa, dopo un violento temporale primaverile, fiumi di fango si sono riversati da quelle colline fino a 15 chilometri nella pianura. Due cittadine, Sarno e Quindici, sono rimaste sommerse dall’ondata di fango che ha travolto strade, case e ponti. Sono stati rinvenuti piú di 160 corpi, ma le vittime sono molte di piú. Eppure non è la peggior disgrazia che Napoli abbia dovuto, o dovrà in futuro, con grande probabilità, sopportare.
Ci sono state innumerevoli frane di minore entità negli ultimi anni, oltre a un bel po’ di terremoti, fra cui quello di spaventosa intensità del 1980, che ha messo in ginocchio metà dell’Italia meridionale. La storia di questi disastri ci è ormai tristemente nota: uno scherzo della natura, reso ancor piú grave dall’irresponsabilità delle autorità locali, inesistenti o corrotte, e dal progressivo impoverimento ambientale determinato da sfruttamento industriale, deforestazione e inquinamento e, nella maggior parte dei casi, da un’incontrollata espansione dell’edilizia abusiva.
Le frane che si sono verificate recentemente sono un tipico esempio. Le colline attorno a Sarno e Quindici, un tempo intensamente coltivate, sono state abbandonate; alberi e cespugli si sono disseccati, morendo, e i muri di contenimento in pietra e i campi terrazzati sono scomparsi, lasciando il terreno libero, e soggetto a una grave erosione. Certo non aiuta il fatto che le falde acquifere vengano prosciugate per rifornire buona parte dell’Italia meridionale, e che l’acqua del fiume Sarno sia inquinata dagli scarichi di una conceria.
L’area di Napoli nel suo complesso è una straordinaria miscela di meraviglie della natura e di abusi da parte dell’uomo, di bellezza e catastrofe.
La stessa città di Napoli è circondata da alture vertiginosamente scoscese, ormai ricoperte da un labirinto di asfalto ed edilizia di bassa qualità, spesso il risultato di appalti ottenuti con la corruzione, e di speculazioni illegali. Il rischio di frane è continuo. In molti luoghi il suolo è costituito da un sottile strato di roccia tufacea che copre una vasta rete di caverne sotterranee. La combinazione di cemento gettato a risparmio, drenaggi inefficienti e fogne a cielo aperto determina talvolta improvvisi smottamenti, che fanno sprofondare nelle viscere della terra un frammento di questo caos urbano.
Nei tempi andati i napoletani si affidavano al loro donchisciottesco patrono, San Gennaro, affinché li proteggesse dal peggiore dei mali. Ma la maggior parte della popolazione, in particolare le nuove generazioni, ha abbandonato questo fatalismo a favore di soluzioni piú realistiche ai propri problemi. Per gente che fino a una o due generazioni fa si guadagnava miseramente da vivere con l’agricoltura, divenire proprietari è l’obiettivo principale.
La prima esplosione di edilizia abusiva si è verificata dopo la guerra, ed è stata accompagnata da una collusione particolarmente nefasta tra gli speculatori edilizi e i corrotti politici locali, come ha denunciato Francesco Rosi nel suo film Le mani sulla città. Un timido tentativo di regolamentazione è stato fatto nel 1972, con l’unico risultato di rendere irrealizzabili i pochi progetti di edilizia pubblica, lasciando campo libero agli speculatori spalleggiati dalla camorra. Nell’arco di vent’anni, le colline, le coste e quelli che una volta erano piccoli centri sulle pendici del Vesuvio, si sono trasformati in un’unica distesa di cemento.
L’antica Pompeii, che sarebbe dovuta rimanere a severo monito del pericolo costituito dal costruire sotto il Vesuvio, è attorniata dalla sua omonima moderna. L’antica Herculaneum è stata praticamente inghiottita dal nuovo insediamento, Ercolano, e non è piú visibile ormai né dalla linea ferroviaria né dalla costa sottostante. In alcuni casi i costruttori hanno ottenuto una licenza simbolica dalle autorità cittadine, di solito per la costruzione di una rimessa o di un capanno, che poi si sono trasformati in un gruppo di case o in un palazzo con vari appartamenti. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, non se ne sono affatto preoccupati.
Per dirla con le parole di Roberto Gianni, esperto di urbanistica, le autorità governative non hanno mostrato nient’altro che “negligenza, se non addirittura irrisione” per la violenza fatta a una delle piú belle baie d’Europa. “L’edilizia era il motore dell’intera economia napoletana. Per la gente ‘pianificazione’ significava solo il permesso di continuare a costruire sempre di piú”, dice Gianni.
Ci sono stati periodi di maggior ragionevolezza, come l’amministrazione comunista del periodo 1975-83, che è riuscita a far abbattere qualche centinaio di edifici abusivi e a confiscarne altre migliaia; queste operazioni, tuttavia, hanno sempre incontrato l’agguerrita opposizione dell’opinione pubblica, dei media e perfino dei tribunali. La sinistra tentava di operare una distinzione fra edilizia abusiva costruita per necessità e la venale speculazione dei possidenti; tale distinzione, però, era un chiaro sintomo dell’assoggettamento della classe politica ai magnati dell’edilizia.
La Napoli di oggi è praticamente un caso da manuale. Ha il tasso di natalità e di crescita demografica piú alto in Italia; la sua densità di popolazione è 15 volte superiore alla media nazionale. Il traffico si muove piú lentamente (10 minuti all’ora) che in qualunque altra città italiana. Sorprendentemente, solo il 26 per cento della provincia napoletana è collegato a un sistema fognario efficiente. Delle 3.300 procedure giudiziarie per crimini contro l’ambiente attualmente in corso in Italia, il 90 per cento è nella regione campana, attorno a Napoli.
Molti dei fitti noccioleti che ricoprivano la collina piú alta di Napoli sono morti, contaminati dall’inquinamento. Gran parte della zona è stata usata come cava di tufo, la friabile roccia giallastra su cui è costruita Napoli: alcune cave arrivano a cento metri di profondità, e il paesaggio naturale è solcato da un’allarmante quantità di ripidi canaloni. Le cave sono tutte abusive.
L’apertura di un parco cittadino sulla sommità della collina di Camaldoli, è stato uno dei tentativi fatti per preservare l’integrità geologica della zona. Ma il parco è per gran parte chiuso per carenza di personale, e i noccioli si stanno disseccando e morendo. È molto probabile che un giorno una fetta della collina frani a valle, travolgendo i sobborghi di Pianura e Soccavo.
Cosa si può fare per prevenire simili disastri? Praticamente nulla, a breve termine. L’unica buona notizia è che l’edilizia abusiva ha subíto un arresto dopo il crollo del vecchio regime politico, fra corruzione e scandali, e l’elezione di un’energica amministrazione comunale di sinistra nel 1993. Si è registrato perfino un moderato ritorno allo sfruttamento agricolo del territorio.
Ci vuole molto tempo
La cattiva notizia è invece che i problemi dell’edilizia abusiva e del pericolo ambientale sono troppo gravi perché qualunque amministrazione cittadina li possa affrontare in tempi ragionevoli. Roberto Gianni, attualmente responsabile della pianificazione urbana, vorrebbe riuscire a creare una fascia di verde protetto sulle colline che circondano la città.
La strategia, per i dintorni di Napoli, è di vedere quali progetti abusivi possano essere effettivamente riconvertiti a tutti gli effetti in nuovi alloggi, controbilanciando l’operazione con l’identificazione di edifici che devono invece essere abbattuti per motivi ambientali o di sicurezza. In questo modo l’urbanizzazione rimarrà contenuta, e la città potrà gradualmente tornare a respirare.
Il problema è che una simile strategia non può funzionare per le pendici vesuviane, in cui la densità della popolazione è tanto elevata da non lasciare alcuno spazio per l’avvio di un’operazione del genere. L’unico modo per spostare gli abitati lasciando spazio per parchi e strade decenti, sarebbe edificare ancora piú in alto, soluzione improponibile. La città di Torre Annunziata non vuole neanche chiudere il suo ospedale, assurdamente situato proprio nel punto in cui, se si dovesse verificare un’eruzione, passerebbe uno dei piú massicci flussi di lava in discesa dal vulcano verso il mare.
Qualche centinaio di metri piú su, la gente di San Vito non manifesta alcuna fiducia nei confronti dello Stato: “Quando sarà il momento, nessuno verrà a salvarci”, si lamenta uno degli abitanti, che ha voluto essere citato solo come Gennaro. Facendo un vago gesto in direzione della zona residenziale dei camorristi, a poche centinaia di metri da casa sua, dice: “Questo è un posto dove vincono i forti, non quelli che seguono le regole. Ci fanno paura molte altre cose, oltre al vulcano”.
(F.T.)


UN LIBRO

NAPOLI. CRONACHE URBANISTICHE 1994-1997
DI VEZIO DE LUCIA (BALDINI&CASTOLDI 1998, 24.000 LIRE)
Finita la cerimonia del giuramento, l’ingegnere Bruno Taranto, che allora non conoscevo affatto, mi spiegò che avrei trovato quella pratica urgente tra le carte che dovevo firmare in mattinata. L’abbattimento era previsto per il giorno dopo all’alba. Osservai con grande attenzione la pratica: tutto sembrava in regola, l’abbattimento assolutamente dovuto. Perché allora quella fretta? Perché avevano aspettato che arrivasse un amministratore nuovo per procedere? Le carte, poi, erano veramente cosí chiare come sembravano? E se quell’ordinanza nascondeva invece un tranello, una provocazione? Per un bel po’ tentai di consultarmi con il sindaco, senza riuscirci: Bassolino fu irraggiungibile per tutta la giornata. La decisione andava presa. Pensai che come assessore avrei rischiato piú di una volta e che, se dovevo cominciare, tanto valeva farlo con un atto del genere.


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