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L'Internazionale n. 117, 16.02.1996©

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Tra i vicoli di Napoli il mito di Maradona vive ancora

DINO DIMEO, LIBÉRATION, FRANCIA

A cinque anni dalla sua squalifica, l’argentino è ancora venerato piú di San Gennaro
Solo nella sua bottega, un ciabattino senza età lavora nella penombra. È quasi mezzogiorno e la lampadina, senza paralume, è sempre accesa. Qui, nelle strette viuzze dei Quartieri spagnoli, il sole non ha mai brillato. Fra la polvere si distingue un poster ingiallito di Diego Maradona. Ha addosso la maglia azzurra del Napoli, quella del 1990, l’anno del secondo scudetto. “Non ho avuto la forza di togliere quella foto”, ripete Antonio Esposito dietro gli occhiali a stringinaso. “Diego mi manca. Manca a tutti noi... Ieri sera, la televisione ha parlato ancora di lui. L’ho visto piangere mentre diceva che si drogava da quando aveva 18 anni. Poveretto. Quello che ci ha dato non ha prezzo. Ci ha fatto rialzare la testa di fronte all’Italia del Nord. L’Italia che ci detesta. Non lo dimenticherò mai”.
Sono ormai cinque anni che il piccolo numero 10 argentino ha lasciato Napoli. Era il marzo 1991, subito dopo un controllo antidoping positivo per cocaina durante la partita Napoli-Bari che gli era costato una sospensione di quindici mesi. Diego ha chiuso con l’Italia. Da anni, una parte del paese lo detestava, lo accusava di tutti i mali del mondo. Soprattutto di aver eliminato gli Azzurri dai Mondiali italiani del 1990. Una ragazza, Cristina Sinagra, gli chiedeva di riconoscere suo figlio e gli intentava un processo per il riconoscimento di paternità. Maradona perdeva ed era costretto a versare un assegno di mantenimento. Gli hanno trovato dei legami con la camorra e il clan dei Giuliano di Forcella. L’accusavano di essersi lasciato sfuggire il campionato a beneficio del Milan nel 1988, quando il Napoli aveva un buon margine di vantaggio. È stato anche coinvolto in un losco affare di traffico di droga, accusa da cui, peraltro, è stato assolto. Ma Napoli se ne frega e perdona tutto. I quartieri popolari, impenetrabili dedali di viuzze dove la polizia evita di venire, hanno conservato il ricordo di un’epoca che fa tuttora sognare gli scugnizzi. “Nel 1990, il Milan avrebbe dovuto vincere e il Napoli gli ha soffiato il titolo”, ricorda Andrea, un ragazzetto di tredici anni. “Per noi ragazzi, Maradona è rimasto un idolo. Da quando se n’è andato, nella sede della società non c’è piú nessuno. E il calcio c’interessa meno”. Alla guida di una carcassa di Vespa, con i libri di scuola stretti fra le caviglie, il turbolento giovane ci invita a imboccare una traversa di Montecalvario dove un affresco raffigurante l’Argentino si allarga su tre piani di un edificio. Per quanto scolorito, s’indovina che, una volta, era azzurro come il cielo. Di fronte al muro sacro, Ciro Piccolo, 40 anni, sta in piedi davanti all’ingresso della sua bottega di idraulico. Indicando alcune rovine, ultimi resti di un palazzo distrutto durante il terremoto del 1980 e convertito da allora in parcheggio-discarica, si tuffa nei ricordi. “Nel 1987, per il primo titolo di campione, in quel posto avevamo eretto una specie di camera ardente”, dice. “Ci avevamo messo delle bare su cui avevamo scritto i nomi delle altre squadre di calcio ed eravamo scesi fino al mare per bruciarle. È stato indimenticabile”. Giuseppe, un vecchio pensionato, viene a unirsi alla conversazione. Capisce immediatamente che si sta parlando del “suo” Diego. “Da quando è partito non ho piú messo piede allo stadio. Ogni domenica, portavo moglie e figli al San Paolo. Ci andavamo tutti, qui. Nel 1984, il giorno del suo arrivo, tutti si sono dati appuntamento allo stadio alle 18. Eravamo in 80mila solo per vederlo, neanche fosse stata una partita”. Per Ciro e Giuseppe, come per gli altri napoletani, Maradona resterà per sempre il miglior giocatore del mondo. Non solo, ma regalando alla città due campionati (1987 e 1990), una Coppa Italia (1987) e una Coppa Uefa (1989), l’argentino ha anche permesso a quelli che il Nord chiama “terroni” di rialzare la testa. I napoletani lo paragonano a Masaniello. “È diventato piú popolare di Garibaldi!”, esagera Giuseppe. “Io, negli ultimi due Mondiali tifavo per l’Argentina. Non per l’Italia. E non ero il solo, qui!”. Come la sua immagine è rimasta intatta nei cuori, anche quelle che ornavano la città sono state preservate. Ai piedi della funicolare di Montesanto, la capigliatura bruna di un Maradona stilizzato occupa il muro di un mercato coperto. Piú in alto, sulle scale della Concordia c’è tutta la squadra dell’epoca raffigurata ai due lati dei gradini. Il numero 10 è immortalato in cima, col torace bombato. In vicolo dei Tre Re, la piazzetta è stata ribattezzata Piazza Diego Armando Maradona. Qui, dove Diego è venerato come San Gennaro, il santo patrono della città le cui reliquie “sanguinano” tre volte all’anno, non si parla del lato intemperante dell’idolo: i festini nei migliori ristoranti, le serate agitate nei lussuosi salotti privati dell’hotel Paradiso, a due passi dalla sua villa. Tutti hanno visto il campione miliardario frequentare i notabili e i padrini locali, si è detto che prendeva cocaina, ma nessuno vuole ricordarsene. “Diego è venuto qui per stringere la mano a tutti”, insiste Assunta, una commerciante di chincaglierie, mentre mette gli acquisti della sua cliente del sesto piano in un paniere legato al balcone. “Ha fatto questo sforzo, perché ci voleva bene. Stiamo ancora aspettando i politici che ci hanno promesso di riparare le nostre case...”. Resta la società di calcio. L’ex regista della squadra aleggia ancora nello stadio, negli spogliatoi, sulle tribune dei tifosi, dove Chiummariello, il capo degli ultras, ha ancora uno striscione col suo nome. È meno incombente a Soccavo, il centro di allenamento dove durante le ultime due stagioni andava solo saltuariamente. I giocatori dell’epoca se ne sono andati praticamente tutti e, se resta un Diego Armando Maradona iscritto al Napoli, si tratta semplicemente di Diego junior, suo figlio “illegittimo” di 11 anni. Del resto, si preferisce non parlarne. Qui, Maradona è stato un giocatore eccezionale. Ma non c’è neanche una sua foto sulle pareti della sede. Soltanto Gennaro, il magazziniere, ha conservato un poster del suo idolo: “Questa fotografia è eterna. Non è ancora nato quello che la toglierà di qui!”. (C. P.)


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