NAZIONE NAPOLETANA
Due Sicilie

PERIODICO INDIPENDENTE DELLE DUE SICILIE

ANNO IV - NUMERO 5 - SETTEMBRE 1999 - 139° ANNO DI OCCUPAZIONE

Edizione ridotta internet

SOMMARIO
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NAPOLI NORMALIZZATA

una sodomizzazione che dura da 139 anni

È finita, dopo le deludenti risultanze delle elezioni dello scorso mese di giugno, la breve quanto inutile esperienza di Ministro del Lavoro del famoso Antonio Bassolino, l’eterno sindaco di Napoli, colui che tutto risana, che tutto può. Peccato però che sarà ricordato solo per lo spiacevole e tragico avvenimento che ha visto perire, sotto i colpi di un poco credibile ritorno del terrorismo, il suo piú stretto e fidato collaboratore: il prof. Massimo D’Antona. A parte questo episodio, tuttora oscuro e che tale resterà per moltissimo tempo, il Nostro non si è distinto granché nei meandri della politica di primo piano, di quella politica che, finita la guerra (o meglio, l’interesse sulla guerra) ha reputato piú saggio riportare questo pezzo da novanta laddove piú urgono le sue cure, dove è piú sentita la sua mancanza.

A questo personaggio gran parte della informazione ufficiale attribuisce il merito della rinascita "civile e culturale" di una vecchia capitale, quale fu Napoli. Sembra quasi di ripercorrere la storia in una sorta di cammino a ritroso. Il sindaco di sinistra, della nuova sinistra del partito democratico denominato DS, come il governo del vecchio giacobino Murat. Da una parte i ruderi riciclati del distrutto muro di Berlino, dall’altra parte del contraltare storico il falso depositario degli ideali della prima rivoluzione moderna. Come per il cognato di Napoleone si decantarono le riforme in campo scolastico, che oggi potremmo ridurre in slogan del tipo "scuola per tutti" (a pagamento s’intende), cosí, per la "speranza" progressista di Napoli, si magnifica il recupero della piazza Plebiscito (quale?), ex Largo di Palazzo Reale.

Con questo non si vuole sminuire quello che in ogni caso è, e rimane, un merito, dal momento che le precedenti amministrazioni nemmeno ci avevano pensato, impegnate com’erano ad arraffare: con questo si vuole affermare che la rinascita di una città disomogenea come Napoli non può scaturire da isolate operazioni di maquillage, di frenetica ricerca del colpo ad effetto, da una ridefinizione del territorio urbano che non contempli, perché colpevolmente abbandonate alla malavita, ampie zone della periferia. Proprio a questo sindaco, eletto anche con il mio contributo di elettore speranzoso, sento il diritto-dovere di muovere una critica alla sua attuale politica. Nella dichiarazione d’intenti, successiva alla vittoria elettorale (‘94), il sindaco Bassolino espose un bel programma, divenuto poi famoso per il costante richiamo alla "normalità"; a questo concetto, che non voleva ridurre o peggio soffocare il genio dei cittadini Napoletani onesti, non si è dato corso pratico, non verificandosi, cosí come era negli auspici, quel recupero del centro storico che tanta propaganda preelettorale aveva occupato. Il punto in questione non è di poca rilevanza dato che il centro storico partenopeo è, per estensione e densità abitativa, tra i primi in Europa.

Recuperarlo, cioè riattivarlo nelle sue precipue funzioni, avrebbe significato riscatto immediato per molta gente che vive di "economie di terza mano", quando non dedita alla grassazione e all’omicidio. Questa, del recupero del cuore della città dal degrado totale, assoluto, poteva essere una carta vincente anche per le periferie. In realtà, fatte salve poche zone franche esterne al nucleo cittadino (vedi Posillipo), l’agonizzante centro storico è stretto in una morsa mortale da una periferia che rigurgita delinquenza e camorra. S. Giovanni, Barra, Ponticelli, Secondigliano, Miano, Piscinola, Chiaiano, Pianura, il rione Traiano a Fuorigrotta costituiscono il terreno ceduto dallo Stato ai nuovi "baroni" del secolo ventesimo. A questo sopruso il popolo drogato dalla "normalità" del malaffare non può, non deve, non vuole ribellarsi.

Ho vissuto per 23 anni - prima di "espatriare" nella "civiltà celtica" - in una periferia che i sociologi definiscono "difficile", come è quella di Secondigliano. In tutti questi anni ho avuto modo di vedere tre cose essenziali. La prima riguarda la volontà di ghettizzare il popolo ammassandolo in anonime cattedrali di cemento (legge 167). La seconda cosa consiste nell’abbandonare questo popolo a sé stesso, relegandolo nel giogo del ricatto omertoso del potere dei gruppi camorristi. Terza ed ultima, in quanto credo definitiva opera del potere politico, la creazione del super-carcere. Della serie "i panni sporchi si lavano in famiglia". In questa come in altre periferie non mi sembra essere giunta ad oggi la decantata normalizzazione di Bassolino e soci. Oggi, come sempre, queste sono periferie dove non solo è difficile procurarsi legittimamente il necessario alla vita quotidiana, ma soprattutto è disperato il difendere la sopravvivenza individuale. In questi luoghi mi piacerebbe vedere con piú frequenza il sindaco, simbolo ormai di sé stesso e del suo partito. In questi angoli di miseria, in questo mondo che è la periferia, lasciati ad un destino piú crudele di quello che un uomo degno di tal nome possa meritare, costretti alla paura dalle camorrie degli stessi loro fratelli, da cui piú tardi li dividerà la faida per il potere, cosí vivono stormi di fanciulli semianalfabeti. A questi fanciulli non resta che la responsabilità della scelta del proprio futuro; la miseria del padre umile lavoratore sottopagato e sfruttato, o quella del "don Raffaè" del rione, ricco e tanto guappo. Ma Napoli non deve morire nel tentativo di raggiungere una normalità che forse non le appartiene. La nostra "normalità" non può essere solo "frenesia e puntualità"; non ci si può scoprire dall’oggi al domani paladini dell’ordine assoluto, quando per anni le briglie sono state sciolte. La normalizzazione di Bassolino sembra distaccarsi inesorabilmente dalle sue iniziali premesse per trasformarsi, nel paese dove tutto è arte del trasformare (giudici che diventano politici, politici che fanno anche i giudici, etc.…), in omologazione al potere di altri per altri. Addio, dunque, al risanamento del centro storico, basta ripulirlo solo per qualche G7 o per il maggio dei monumenti (un mese per la cultura basta e avanza), per salvare la faccia ed ottenere le lodi del potere ufficiale.

Addio alle periferie di una città che non le riconosce e, per questo, le fa discarica di sé medesime. Addio "popolo ‘e na vota, gente semplice e felice ...", cosí recitava la canzone. Adesso da questo popolo ridotto a meno di nulla bisogna partire per fare di Bassolino un sindaco "normale" e di Napoli una città STRAORDINARIA !!!

Frack

LARGO ‘E PALAZZO

Chi ha avuto, ha avuto
e chi ha dato, ha dato,
(ma nun) scurdammoce ‘o ppassato:
simme ‘e Napule, paisà

TESTIMONIANZE

Lettera aperta ai Sindaci delle Due Sicilie

Ai primi dello scorso giugno un nostro lettore residente a Zurigo, il signor Calogero Li Rosi, ci ha segnalato che ad Arco (Trento), dove morí il nostro amatissimo Francesco II, aveva trovato, con sua piacevole sorpresa, una strada intitolata a "Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie". Nella sua lettera il signor Calogero descrive come i suoi sentimenti siano passati dallo stupore all’indignazione, quando si è accorto che nella graziosa cittadina trentina non vi era nemmeno una strada, una piazza o un vicoletto intitolata ai quei … personaggi risorgimentali, di cui abbondano le nostre contrade. Concludeva, infine, la sua lettera (abbastanza pepata, per la verità, tanto che ho dovuto cambiare con "personaggi risorgimentali" i feroci epiteti da lui dati a Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour e Mazzini), rimarcando il senso di vergogna che aveva provato per questa scoperta, soprattutto per il fatto che al Sud non c’è niente che ricordi la nostra storia e che aveva dovuto trovare qui nel Trentino una memoria del nostro passato.

Incuriosito da questa straordinaria testimonianza, dopo qualche giorno, mi sono recato anch’io ad Arco e ho constatato di persona che tutto quanto mi era stato segnalato era purtroppo tutto vero. Devo dire, inoltre, sinceramente, che anch’io ho provato un senso di vergogna. Nel Meridione, infatti, vi è la piú alta densità di vie e piazze dedicate proprio a quelli che, in nome di una unità voluta e cercata soltanto da una minoranza al soldo di potenze straniere, hanno provocato piú morti tra i Duosiciliani che in tutta la ex Jugoslavia di adesso, per non parlare delle migliaia di Meridionali che ancora oggi, ripeto: ancora oggi, vengono costretti ad emigrare, a lasciare la propria terra e i propri affetti per sopravvivere! Due sono le cose: o gli amministratori meridionali ignorano la nostra storia oppure sono semplicemente dei masochisti che non amano la propria Terra: Via Garibaldi a destra, Via Cavour a sinistra, Via Mazzini in fondo, Via Cialdini che incrocia via Liborio Romano, Piazze, Monumenti, tutti dedicati a questi … personaggi... che ci hanno derubato di tutto, persino della nostra dignità. Io credo che quei monumenti, quelle piazze e quelle strade cosí intitolate faranno fremere nella tomba tutti i nostri patrioti massacrati e imprigionati a seguito dell’invasione di quei maledetti savoiardi piemontesi.

Insomma, nonostante siano passati 140 anni dall’invasione piemontese, nonostante siano passati piú di 50 anni di Repubblica, al Sud dobbiamo subire ancora l’onta di dover sopportare nelle nostre contrade l’imposizione di quei monumenti e di vedere quelle strade e piazze cosí sfregiate, mentre tutto è stato distrutto e nascosto della nostra storia.

Ora io chiedo ai nostri Sindaci (e mi auguro che ce ne sia qualcuno tosto) di impegnare un po’ del loro bilancio per l’acquisto di robusti scalpelli e di demolire quelle lapidi o quei monumenti che inneggiano a quei personaggi che al Meridione hanno fatto conoscere solo corruzione, miseria, mafia ed emigrazione. Quanto meno abbiano il coraggio civile di ricordare qualcosa delle nostre tradizioni e di non farsi insegnare dai Sindaci del Trentino come si fa ad avere dignità e ad essere fieri di essere Meridionali.

Nella graziosissima e ordinatissima cittadina termale di Arco, durante mio vagabondare, ho anche conosciuto l’ex Sindaco, il Sig. Selenio Ioppi, che, con somma cortesia, saputo il motivo della mia visita, mi ha fornito le foto che vedete riprodotte e mi ha anche fatto omaggio della pubblicazione "Arco Felix" (edizioni "il Sommolago" di Arco), curata dal prof. Mauro Grazioli, in cui ho trovato le notizie sulla permanenza di Francesco II nella cittadina e che riporto in stralcio:

(foto a fianco: i funerali di Francesco II)

Come potete vedere le nostre memorie storiche sono piú tenute in considerazione altrove che da noi. Intanto ho dovuto constatare che sindaci tosti ce ne sono, ma … nel Trentino. Certamente non è facile, da noi, cambiare i nomi alle strade, ma certamente non è proibito, cioè non vi è una legge che lo imponga o che impedisca di cambiare i nomi alle vie o alle piazze. E poi, non c’è nemmeno bisogno di un atto di coraggio per farlo, anzi mi sembra vergognoso, del tutto contro natura, continuare a lasciare l’attuale toponomastica.

Per questi motivi, tutti noi di Nazione Napoletana, rivolgiamo un appello a tutti i nostri Sindaci affinché termini questo sconcio di vedere osannati nelle vie e nelle piazze della nostra Patria proprio quei … personaggi che ci hanno causato tanti mali e che, ancora oggi, non riusciamo a eliminare proprio perché moltissimi meridionali sono ancora succubi di queste menzogne. È un fatto gravissimo questa mancanza di presa di coscienza, perché ci impedisce di essere orgogliosi della nostra identità e, quindi, ci impedisce di costruire un "nostro" futuro, perché, è proprio vero "un popolo che non ricorda il suo passato non ha futuro".

A chi non riesce a capire quanto andiamo dicendo da anni, si vada a leggere i libri di storia che oggi la cultura ufficiale impone a scuola, cosí si renderà conto su come veniamo considerati noi meridionali. Quelle menzogne producono anche un altro effetto: quello di farci sentire sin da piccoli in condizioni di inferiorità e cosí renderci succubi su tutto quello che ci impongono. Se questo che affermo non fosse vero, nei libri di scuola direbbero la verità su quei … personaggi e sulla storia delle Due Sicilie.

Facciamo attenzione, però, che molta colpa di tutto questo è anche dei politici meridionali che, pur di avere qualche vantaggio personale, accettano senza discutere qualsiasi cosa gli viene loro imposta dai poteri occulti insediatisi a Roma. Io non so se è per ignoranza, per incapacità o per piaggeria, ma certamente questi nostri politici non si pongono il problema dei mali del Sud attraverso una visione globale. Eppure, se fossero dei veri politici, non possono non rendersi conto che tutti i partiti, Centro, Destra o Sinistra, non importa quale, non hanno mai fatto nulla per il Sud, ma hanno soddisfatto solo ed esclusivamente gli interessi del triangolo industriale e che tutto quello che hanno contrabbandato come rimedi per il Sud non erano che altre fonti di speculazioni per le ingorde imprese del nord.

Altrimenti non si spiegherebbe come, dopo 140 anni da questa … unità d’Italia e relative Casse del Mezzogiorno, noi siamo ancora costretti ad emigrare o a dover accettare sovvenzioni per poter campare. La soluzione dei nostri mali non può essere che una sola: indipendenza.

Antonio Pagano

La Mozzarella non abita piú al Sud

mozzarellaLa mozzarella, prodotto tipico meridionale, o, per meglio dire, della Campania, una volta era cosí definita tecnicamente: "formaggio fresco, non fermentato, di forma tondeggiante, fatto con latte di bufala". Ebbene non è piú cosí. Anzi non è nemmeno un prodotto tipico meridionale. Vi stupite? Vi meravigliate? O forse sorridete? No, cari lettori, mettetevi invece a piangere: qua piano piano ci hanno fottuto anche la mozzarella.

Abbiamo riportato, per intero, la sentenza dell’autorità garante della concorrenza e del mercato che sancisce quanto vi ho detto sopra con tanto di bollo e timbri. Leggetevela attentamente e scoprirete come la parola "mozzarella", che è il vero nocciolo della questione, non è nemmeno presa in considerazione, ma si conciona di "mozzarella industriale" fatta da quelli lí, che si distingue dalle altre "mozzarelle industriali" fatte da quelli là.

E quello che è piú scandaloso: avete visto mai qualche nostro (del Sud, intendo) politico protestare o fare qualche interpellanza al Parlamento? Macché, se ne guardano bene. Anzi state attenti voi di Napoli a non fare il gorgonzola oppure voi di Lecce a non fare il Barolo, quelle sí che sono robe protette! Comunque, guardatevi il ... "blind test" e buon appetito!

Antonio Pagano

AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO

NELLA SUA ADUNANZA del 4 febbraio 1999; SENTITO il Relatore il Professor Giovanni Palmerio; VISTO il Decreto Legislativo 25 gennaio 1992, n. 74; VISTO il Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pubblicità ingannevole, di cui al D.P.R. del 10 ottobre 1996, n. 627; VISTI gli atti del procedimento; CONSIDERATO quanto segue:

l. Richiesta di intervento

Con richiesta di intervento pervenuta in data 26 maggio 1998, integrata in data 4 agosto 1998, un consumatore ha segnalato la presunta ingannevolezza, ai sensi del Decreto Legislativo n. 74/92, del messaggio pubblicitario relativo alla "Mozzarella Galbani Vallelata", diffuso sull'emittente televisiva Rai 3, nel periodo aprile-maggio 1998, durante la fascia oraria 18.00-18.30. Nella richiesta si evidenzia che la rappresentazione contenuta nel suindicato messaggio - un ragazzo che mangia lentamente una mozzarella, esprimendo apprezzamenti sulla bontà della stessa in dialetto napoletano - potrebbe indurre in errore i consumatori circa l'origine geografica del prodotto pubblicizzato.

2. Messaggio

Il messaggio pubblicitario oggetto della richiesta di intervento mostra un ragazzo mentre consuma lentamente una mozzarella. Il protagonista, interrogato da una voce fuori campo circa i motivi di tanta lentezza, con accento tipico campano giustifica il suo comportamento con la bontà del prodotto e con la voglia di prolungare il piú possibile il piacere che deriva dal consumo dello stesso: "Signò, questa è una mozzarella speciale, è Vallelata Galbani. Quest'è troppo buono". Nel corso del filmato, che si conclude con l'affermazione "Vallelata Galbani un gusto senza fine", appare il logo "Galbani Mozzarella Vallelata - ricca di fermenti lattici".

3. Comunicazione alle parti

In data 11 settembre 1998 è stato comunicato al segnalante e alla società Egidio Galbani S.p.A., in qualità di operatore pubblicitario, l'avvio del procedimento, ai sensi del Decreto Legislativo n. 74/92, precisando che l'eventuale ingannevolezza del messaggio pubblicitario oggetto della richiesta di intervento sarebbe stata valutata ai sensi degli artt. 1, 2, lettera b), e 3 del citato Decreto Legislativo, con riguardo all'affidamento suscitato nei consumatori dalla prospettazione contenuta nel messaggio circa le caratteristiche e le particolari qualità gustative della mozzarella pubblicizzata.

4. Risultanze istruttorie

Contestualmente alla comunicazione di avvio del procedimento, è stato richiesto all'operatore pubblicitario, ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera a), del D.P.R. n. 627/96, di fornire la seguente documentazione:

- documento di briefing sulla base del quale è stato elaborato il messaggio pubblicitario in questione;
- piano di marketing o analoghi documenti aziendali, dai quali sia possibile evincere quali fossero gli obiettivi di marketing perseguiti dallo spot, in termini di posizionamento pubblicitario e target audience di riferimento;
- messaggi, e relativa programmazione, riconducibili alla stessa campagna pubblicitaria a cui appartiene il messaggio in esame;
- ricerche di mercato eventualmente disponibili, riguardanti il comunicato denunciato.

Con memoria pervenuta in data 6 ottobre 1998, la società Egidio Galbani S.p.A. ha rappresentato quanto segue:

- la mozzarella Vallelata si distingue significativamente dalle mozzarelle di normale produzione industriale, per avvicinarsi, quanto ad aspetto, consistenza e gusto, alle mozzarelle di tipo tradizionale. Come risulta, infatti, dalla relazione a firma del Direttore Assicurazione Qualità Galbani prodotta in atti, la mozzarella Vallelata è ottenuta a partire da latte fresco, che perviene crudo allo stabilimento di trasformazione. Tale caratteristica della materia prima la differenzia dalle mozzarelle industriali, ottenute da latte che perviene pastorizzato o termizzato allo stabilimento di trasformazione o ottenute da cagliate acquistate come semilavorati. Inoltre, mentre le mozzarelle industriali sono ottenute per acidificazione diretta (con aggiunta cioè di acido lattico e/o citrico) o con sistema misto (acidificazione piú fermentazione), Vallelata Galbani è ottenuta per fermentazione lattica, a mezzo di un lattoinnesto termofilo naturale: particolare questo che costituisce l'elemento caratterizzante della mozzarella tradizionale, cosí come descritto nel relativo standard UNI (U59.09.159.0 - luglio 1994). La fermentazione mediante l'impiego di un lattoinnesto termofilo naturale, resistente al trattamento termico, impartisce al prodotto peculiari caratteristiche di gusto, e garantisce la presenza di un elevato numero di fermenti lattici vivi e vitali, che all'origine sono a livelli uguali o superiori a quelli minimi previsti per lo yogurt;

- a supporto delle particolari caratteristiche organolettiche del prodotto Vallelata, la parte ha allegato i risultati di analisi sensoriali effettuate sotto il controllo della Direzione Assicurazione Qualità Galbani da gruppi di assaggiatori e di blind test effettuatida un istituto di ricerche su un campione di 900 individui rappresentativo di donne responsabili degli acquisti alimentari, in età compresa tra i 20 e i 55 anni, consumatrici di mozzarella. Dalle analisi sensoriali, il cui obiettivo era individuare le differenze sensoriali della mozzarella Vallelata rispetto ad altri analoghi prodotti della concorrenza, si evince che la prima si differenzierebbe dai secondi per il colore bianco, la presenza di succo di colore bianco, per l'aroma di latte e di fermento piú accentuati. Nel blind test, che si proponeva di verificare il livello di gradimento e di accettazione della formula mozzarella Vallelata rispetto ad altre in commercio, risulterebbero particolarmente apprezzate alcune caratteristiche della mozzarella in questione, quali la delicatezza del sapore, il grado di dolcezza, la freschezza, l'intensità, il grado di salato, il sapore di latte, ma soprattutto il colore;

- il messaggio oggetto della richiesta di intervento, cosí come del resto l'intera campagna pubblicitaria Vallelata, non è volto ad accreditare il prodotto pubblicizzato come proveniente da una particolare zona d'Italia, in quanto l'uso del dialetto ha la diversa funzione di presentare la mozzarella Vallelata come legata alla tradizione, sia per il procedimento di fabbricazione che per gli ingredienti adoperati, e per le caratteristiche gustative;

- a tal riguardo la resistente rileva che la campagna pubblicitaria, di cui è parte il messaggio oggetto della richiesta di intervento, è stata preceduta da un'altra campagna televisiva, diffusa nel 1995 e nel 1996, e articolata su quattro personaggi protagonisti che parlano rispettivamente non solo in dialetto napoletano, ma anche in toscano, in veneziano, in bolognese e in romano. (Viene prodotta in atti la registrazione dei quattro spot, tutti della durata di 30"). Nell'autunno del 1996, forte dei risultati di una ricerca telefonica condotta da un istituto di ricerche di mercato sul gradimento da parte dei consumatori della campagna di cui si è detto, la società Galbani decise di adottare lo stesso modulo comunicazionale anche per la campagna 1997 - 1998. Sulla base della documentazione allegata in proposito dalla parte - copy brief di Galbani e brief creativo dell'agenzia pubblicitaria incaricata della realizzazione dei messaggi - obiettivo della campagna 1997 - 1998 era di rafforzare il posizionarnento del prodotto nell'area "piacere", evidenziandone le caratteristiche oggettive (utilizzo di latte fresco e presenza di fermenti lattici). Successivamente alla programmazione della campagna 1997, fu effettuata da un istituto di ricerche un'indagine telefonica fra 608 consumatori, per verificare il livello di gradimento dei nuovi spot Vallelata e il grado di ricordo degli stessi. I risultati di tale indagine - prodotti in atti - rivelerebbero che la campagna in questione comunica solo un'idea di qualità, affidabilità, bontà del prodotto, e non anche un'indicazione di origine geografica, dando come preminente, nella preferenza e nel ricordo del pubblico, il filmato che ha come protagonista "lo scugnizzo napoletano".

5. Parere dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni

Poiché il messaggio oggetto del presente provvedimento è stato diffuso per via televisiva, in data 10 novembre 1998 è stato richiesto il parere all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ai sensi dell'art 7, comma 5, del Decreto Legislativo n. 74/92. Nel parere, pervenuto in data 18 gennaio 1999, si sostiene che il messaggio pubblicitario in esame non è ingannevole ai sensi degli artt. 1, 2, e 3 del Decreto Legislativo n. 74/92, in quanto appare sostanzialmente finalizzato a evidenziare caratteristiche peculiari della mozzarella pubblicizzata, legate alla utilizzazione di latte fresco e alla presenza di fermenti lattici, e a sottolineare, attraverso una tipica iperbole pubblicitaria, la particolare gradevolezza del gusto, con l'interpretazione di un personaggio "tipico", senza peraltro che tale utilizzazione sia percepibile dai destinatari del messaggio come una indicazione indiretta di provenienza geografica del prodotto.

6. Valutazioni conclusive

Ai fini di una piú corretta valutazione del messaggio in esame occorre considerare il contenuto comunicazionale sotteso alla campagna pubblicitaria, relativa alla mozzarella Vallelata Galbani, di cui esso è parte. Come risulta in atti, la campagna pubblicitaria di riferimento, a partire dal 1995, ha impiegato come protagonisti soggetti dotati di una forte connotazione regionale (romana, bolognese, veneziana. ecc.), per comunicare, sia con le parole che con le immagini, le caratteristiche gustative del prodotto Vallelata, attraverso un aggancio indiretto alla tradizione attuato, appunto, con la scelta di protagonisti che si esprimono in dialetto (di volta in volta, napoletano, toscano, veneto ecc.) Il messaggio oggetto della richiesta di intervento, incentrato come è a esaltare una generica, soggettiva e imponderabile caratteristica del prodotto pubblicizzato, ossia la bontà, esprime il medesimo contenuto comunicazionale della campagna pubblicitaria di riferimento. In particolare, nel filmato in esame tale esaltazione avviene raffigurando un ragazzo nell'atto di consumare lentamente la mozzarella Vallelata Galbani. L'espressione tipicamente regionale - "E' una' mozzarella speciale" utilizzata dal protagonista dello spot in questione per sottolineare la gradevolezza della mozzarella degustata, nel contesto del messaggio e alla luce della campagna pubblicitaria di riferimento rappresenta un richiamo indiretto alla tradizione, speso per evidenziare le caratteristiche peculiari di una mozzarella industriale, quale è quella Galbani Vallelata, che pur essendo tale può vantare alcune particolarità, quali l'impiego di latte fresco nel procedimento di fabbricazione della stessa e la presenza di fermenti lattici, che la distinguono da una mozzarella tipicamente industriale, come emerge dai risultati delle analisi sensoriali prodotte in atti. In quest'ottica, l'impiego nel filmato in esame di espressioni dialettali campane non appare volto ad accreditare una specifica origine geografica del prodotto rappresentato, ma costituisce espediente creativo di aggancio indiretto alla tradizione, nel senso anzidetto. Una simile interpretazione appare confortata dalla stessa campagna pubblicitaria di riferimento, la quale, come sopra evidenziato, ha coinvolto molteplici soggetti e regionalismi linguistici, per enfatizzare un'idea di affidabilità e bontà del prodotto. In tal senso, del resto, depone la documentazione prodotta dall'operatore pubblicitario in ordine alla percezione del messaggio da parte dei suoi destinatari, i quali non hanno inteso lo stesso come volto ad attribuire un'origine geografica specifica al prodotto pubblicizzato.

RITENUTO, pertanto, in conformità al parere dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, che il messaggio pubblicitario in esame non è idoneo a indurre in errore i consumatori, con riguardo alla prospettazione in esso contenuta circa le caratteristiche e le particolari qualità gustative della mozzarella pubblicizzata;

DELIBERA

che il messaggio pubblicitario descritto al punto 2 del presente provvedimento, diffuso dalla società Egidio Galbani S.p.A., non costituisce, per le ragioni esposte in motivazione, una fattispecie di pubblicità ingannevole ai sensi degli artt. 1, 2, 3, lettera a), del Decreto Legislativo n. 74/92. Il presente provvedimento verrà comunicato ai soggetti interessati e pubblicato nel Bollettino dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Avverso il presente provvedimento può essere presentato ricorso al TAR del Lazio. ai sensi dell'art. 7, comma Il del Decreto Legislativo n. 74/92, entro sessanta giorni dalla data di comunicazione del provvedimento stesso.

Firmato da:

Il Segretario Generale (illeggibile) - Il Presidente (illeggibile)

1799

INSORGENZE NEGLI ABRUZZI
CONTRO I FRANCESI

Sta per finire l’anno 1999, l’anno in cui sono stati spesi (e … incassati, ovviamente, da quelli del "giro") molti miliardi per festeggiare il secondo centenario dell’avvento dell’effimera "repubblica partenopea" e dell’invasione francese. Festeggiamenti che ci fanno riflettere su come questa gente, vero cancro sociale, intende il mondo, cioè alla rovescia: gli invasori diventano "liberatori", i traditori diventano eroi, i ladrocini diventano finanziamento alle truppe "liberatrici" e gli assassini, gli stupri ed ogni genere di violenza diventano "atti liberatori". Il 1799 fu, invece, un anno tristissimo, non solo per l’Abruzzo, ma per tutto il centro-meridione d’Italia. Ancora piú triste perché questa mala pianta, dopo duecento anni, non è stata ancora estirpata. Per tali motivi, ancora una volta, mediante le preziose ricerche dell’autore di questo inserto, LUIGI TORRES, vogliamo ricordare quegli avvenimenti, che furono l’inizio di altri ben piú gravi, che culminarono nel 1860, quando perdemmo la nostra indipendenza e fummo trasformati in una ormai silente colonia di quello che oggi è chiamato "triangolo industriale".

Altra nota interessante è, inoltre, la conferma del tradizionale sistema di difesa attuato nelle Due Sicilie, cioè quello dell’organizzazione spontanea delle "masse" dei cittadini in caso d’invasione da parte di truppe nemiche, fatto che dimostra la malafede degli attuali libri scolastici sul cosiddetto "brigantaggio", che nel 1860 (poiché riguardava la conquista delle Due Sicilie) veniva chiamato tale, allo stesso modo degli invasori francesi, mentre le insurrezioni popolari contro le truppe tedesche avvenute negli anni 1944 – 45 venivano chiamate "resistenza".

Come sempre la storia "ufficiale" è quella scritta dai vincitori, ma … "adda passà sta nuttata". (a.p.)

I ladroni e assassini francesi invadono gli Abruzzi

A contrastare l’invasione si svilupparono movimenti insorgenti antifrancesi, formati per la prima volta da ingenti masse popolari, a reclutamento volontario regionale. Non poteva mancare perciò, su tali eventi, un momento di riflessione per giustificare le legittime reazioni del popolo meridionale ed abruzzese in particolare, prime di una lunga serie di insorgenze popolari contro i molti tentativi di occupazioni e aggressioni del nostro patrio suolo. Le truppe di Championnet dilagano in Italia, occupando città e castelli, travolgendo tutto con incendi, depredazioni e morti. I "frutti" dello sconvolgimento erano evidenti su tutte le terre che i francesi andavano occupando e che consistevano, in Abruzzo e altrove, nello spogliare di denaro l’erario, d’armi le armerie, i granai delle vettovaglie, e nel vestire, pascere, alloggiare e pagare i soldati francesi.

La conferma ce la dà lo storico B. Giardetti (Memoria su Matteo Manodoro, generale dei briganti) : i francesi "… facevano la guerra vivendo alle spalle dei popoli conquistati, requisendo denaro, viveri e quant‘altro fosse loro necessario. E non solo detraevano i raccolti e il bestiame dalle campagne, ma doveva essere fornito loro anche il vestiario e le calzature".

Ampia conferma dei tanti significativi episodi ladreschi compiuti dagli invasori è possibile attingerla dal libro di Coppa Zuccari, dal quale si va ad estrapolare qualche significativo episodio. "In una situazione veramente gravosa erasi trovato il Duhesme nel momento della marcia da Chieti a Sulmona: quasi tutti gli uomini della sua Divisione erano sforniti di scarpe." Il generale Paolo Thiébault, capo di S.M. e poi comandante di una Brigata del Duhesme, escogita subito il rimedio d’inviare commissari per tutte le case dei Comuni attraversati "… cominciando dalle piú agiate, ma senza eccezione di classe e d‘impiego", fintantoché non si riesce a recuperare, in soli cinque giorni, diecimila paia di scarpe con cui vestire i suoi soldati, "denudando nei piedi" la povera gente. Cosicché, in soli cinque giorni, le truppe con le quali operavano i generali Rusca e Monnier vengono calzate, anticipando cosí la marcia.

Il gen. Filippo Guglielmo Duhesme in queste attività supera tutti, perché, ovunque è presente, sotto la parvenza di una legittima perquisizione, egli taglieggia, ruba, sequestra denaro e oggetti preziosi alle popolazioni sottomesse, in nome di una sua fantasiosa pubblica necessità. Oltre all’episodio della requisizione delle scarpe, il Duhesme è rimasto in triste memoria presso le genti abruzzesi per altri analoghi episodi, riportati sempre dal Thiébault nel suo "Diario". Si narra che, dopo la resa di Pescara, il Duhesme, prima di lasciare il suo quartier generale di Moscufo, avesse impartito istruzioni al suo staff di scegliere dodici ufficiali "intelligenti ed onesti" - si noti bene la precisazione "intelligenti ed onesti" - da mandare a riscuotere presso ogni Comune conquistato cinquecentomila franchi con la meschina giustificazione che "lo stipendio è arretrato e mancano i fondi a varii esercizi; io ne ho bisogno pel mio spionaggio. Inoltre ho un rango e una famiglia che mi costano duecentomila franchi". Al che Thiébault, con i modi garbati, gli risponde che il denaro sarebbe stato reperito, ma per giusta causa e giammai per le finalità private da lui esposte, aggiungendo: "Dove volete che io prenda ufficiali degni di una tal fiducia? Come impedire che essi facciano per loro stessi quello che voi volete fare per voi stesso? Come impedire che, seguendo il vostro esempio, altri capi non s‘aggiudicheranno simili gratificazioni? Qualunque cosa noi tentiamo, questi ufficiali faranno di tutto per esigere il doppio della somma che dichiareranno; per mancanza di tempo ricorreranno alle misure spicce piú odiose, commetteranno ogni sorta di esazioni, finiranno per fare ribellare il paese e macchieranno cosí in mille guise il vostro nome, che essi copriranno d‘infamia in questo modo ...". Le parole forbite e moderate del Thiébault a nulla valgono, tant’è che il Duhesme, dopo averlo ascoltato, in tutta risposta mette in libertà il suo subordinato con un ordine perentorio dando ad intendere che gli andava tutto bene quello che gli aveva riferito, ma di darsi comunque da fare per trovare un mezzo migliore di quello proposto, purché provvedesse a reperire il denaro richiesto: "… non posso darvi che due ore di tempo".

L’inizio delle insorgenze

Perciò le masse si armano e, in nome del Re, della religione e della Patria, a far data dal 15 dicembre 1798 danno vita ad un movimento "insorgente antigiacobino", iniziato con ribellioni spontanee all’invasore, che si propagheranno come rivolta nazionale sostenuta dal clero, dalla borghesia e dalla nobiltà. Il gen. Lemoine, sconfitte le truppe del gen. Sanfilippo presso Terni, procede verso l’Abruzzo, dalla parte di Cittaducale, senza incontrare alcuna resistenza; vi fa ingresso il giorno dell’Immacolata. La notizia, divulgata con apposito manifesto del Re, induce il Camerlengo dell’Aquila Giovanni Pica a indire pubblica riunione nella Cattedrale di S. Massimo, per incitare la popolazione ad armarsi ed accorrere verso le gole di Antrodoco per ostacolare l’avanzata del nemico prima che questo fosse riuscito a sorpassare i confini abruzzesi. L’appello è accolto benevolmente da molti giovani che, armatisi, accorrono verso Antrodoco, ma a causa della loro inesperienza combattiva, al semplice impatto con le agguerrite truppe d’oltralpe, rimangono immantinentemente sconfitti. Umiliati e delusi per il tragico epilogo, quegli avventurosi volontari si danno alla macchia per poi far rientro clandestino ai loro paesi. Nonostante i reiterati tentativi di resistenza, il 16 dicembre il gen. Lemoine fa il suo ingresso in L’Aquila, che conquista facilmente col ferro e col fuoco, strada per strada, casa per casa. "Generale inesperto" – lo definisce Thiébault nelle sue "Memorie" - "aveva commesso numerosi errori, i suoi maggiori successi furono dovuti all‘eroismo delle sue truppe, col coraggio indicibile del Gen. Point ..." che, come si andrà a raccontare fra poco, pagherà il suo ardore con la vita nell’attacco di Popoli.

Il giorno dopo i francesi conquistano il Castello. Prontamente provvedono alla soppressione del Magistrato cittadino e, in sua vece, nominano una Commissione amministrativa provvisoria, composta dai collaborazionisti Alfonso Micheletti, Vittorio Ciampella, Alessandro Colucci, Gennaro Mari, Michele Rotondo e Carlo Leoni. Tale commissione sarà sostituita nel febbraio 1799 da una "Municipalità", piú stabile, composta da Giuseppe Picella, Luigi Ienca, Giuseppe Fiorilli e Bernardino Muzii, presieduta da Francesco Guelfi.

Il 19 dicembre il gen. Lacombe emette un "proclama", tendente a placare gli animi dei cittadini Aquilani, addossando la colpa dei funesti avvenimenti esclusivamente al comandante e ai magistrati borbonici "...tanto vili quanto prima erano stati insolenti". Poi aggiunge: "io ho impedito il disordine per quanto mi è stato possibile...", cui fa seguire l’invito:

Questo "bando di guerra" viene fatto pervenire al Duhesme, avvisandolo dei suoi movimenti verso Sulmona. Il messaggio viene ricevuto, a Tocco da Casauria, dalcapitano Girad, della Brigata Monnier, che provvede di conseguenza al successivo inoltro. Sulla base del dettato del "proclama", il Gen. Duhesme ha cosí il permesso di adeguare il dispositivo offensivo nel modo piú conveniente.

Gli invasori francesi distruggono e rubano

Il gen Lemoine, lasciato un consistente presidio in L’Aquila, procede verso il Centro Abruzzo per portarsi a Popoli, ove l’attendeva il gen. Duhesme, che aveva intanto invaso la Regione dalla parte del Tronto. Superate le varie resistenze opposte all’avanzata, il 24 dicembre le truppe francesi occupano Popoli che conquisteranno soltanto cinque giorni dopo. Entrambe le divisioni, cosí riunite, procedono verso la Valle Peligna e l’Alto Sangro, per portarsi a Capua, secondo il programmato piano d’invasione. Il 23 cade la Fortezza di Pescara. La cittadina della Valle Peligna piú seriamente provata dal vandalismo dei francesi del gen. Lemoine fu, come si è accennato, Popoli.

Le truppe d’oltralpe, nel dicembre 1798, dopo aver saccheggiato L’Aquila (16 dicembre) e discese le svolte popolesi (oggi meglio conosciute per l'annuale cronoscalata automobilistica di ferragosto), la mettono a ferro e a fuoco. Il danno provocato in quelle giornate è ingente: solo i danni materiali ammontano a duecentomila ducati, "… un danno insopportabile e dissanguatore", senza considerare il bilancio dei caduti, che, come di consueto, non costituiscono cifra economicamente computabile. Al sopraggiungere delle truppe francesi, la popolazione peligna reagisce con diffidenza, con ostilità e, in diversi casi, analogamente ad altre città italiane, con rivolte.

Per Popoli stava per sopraggiungere il periodo piú freddo e oscuro della sua storia. Le truppe di occupazione di Lemoine si rivelano oltremodo violente e spietate. Per ridurre gli effetti devastanti dell’occupazione militare, vengono loro offerti trattamenti di tutto rispetto, ma al cadere dei primi morti, esse reagiscono in modo violento e sproporzionato. Delle turpi violenze usate verso la cittadina di Popoli, ci serviamo di due fonti documentarie: una preminentemente storica, l’altra tratta dagli atti notarili dell’epoca.

Il documento CCCLXX, raccolto da Coppa-Zuccari in Popoli, presso l’archivio privato della famiglia Tesone, in merito alla presa di Popoli, cosí riferisce: "… è facile immaginare lo sgomento, la paura e la disperazione dei cittadini quando gli stranieri, con orribile fracasso, irruppero nell‘abitato. I difensori fuggirono e i francesi diluviarono nella case, ed essendo affamati, molli d‘acqua e intirizziti dal freddo, vi fecero terribili cose. In questo mezzo vennero in Popoli le Colonne condotte da Monnier e Duhesme e crebbero i gridi e i tumulti, i danni dei cittadini e molti stettero in grave pericolo di vita" (Coppa-Zuccari, L’invasione francese negli Abruzzi, 1798 – 1810, L’Aquila 1993). Ecco il passo specifico dell’entrata dei francesi in Popoli, ripreso dalla raccolta degli atti notarili del Notaio Michele Antonio Carosi, conservati nell’Archivio di Stato di Sulmona:

Altrettanto accadeva in casa di Don Vincenzo De Vera, dopo che con la famiglia era riuscito a mettersi in salvo, alla notizia dell’infuriare degli animaleschi invasori d’oltralpe. Questi ultimi, infatti, occupano militarmente la casa trasformandola in loro quartiere e dopo averla utilizzata, rubano e fracassano i mobili e gli arredi, tanto quelli di pregio che quelli usuali, consumando tutte le provviste alimentari immagazzinate. Nell’abbandonare la casa, lasciano aperte le botti di vino, danno da mangiare ai loro cavalli le provviste di grano, e, come se non bastasse tutto quello scempio, danno alle fiamme gli infissi e i mobili ingombranti che non erano riusciti a trasportare. (V. Moscardi, L’invasione francese nell’Abruzzo aquilano, Polla, 1998)

La coraggiosissima reazione abruzzese

In quel giorno rimasto memorabile, una forte tormenta di neve e ghiaccio avvolge tutta la valle. Quattro donne, fuggite nella campagna circostante per evitare il fuoco delle armi francesi, vanno incontro a morte ben piú atroce: l’indomani mattina saranno ritrovate assiderate dal gelo. La reazione dei Popolesi diventa decisa, sostenuta, grazie ad uno sparuto gruppo di audaci soldati napoletani, i quali riescono ad incitare tutta la popolazione e ad opporsi alla furia devastatrice degli uomini-belva del gen. Lemoine. Il popolese Pietro Rico, giovane e coraggioso, di umili origini, appostato tra le rovine fumanti del Lanificio Cantelmo, con un sol colpo di archibugio riesce ad abbattere il gen. Point. Oltre al Point, al Lemoine Popoli costa la perdita di ben trecento uomini. Allora la battaglia divampa in tutta la sua crudezza da parte degli assalitori, inviperiti per l’uccisione del loro comandante, con intensità crescente. Al frastuono delle armi da fuoco, fanno eco i lenti rintocchi delle campane mezzane di tutte le chiese e, in particolare, di quella grande della Chiesa di S. Lorenzo, posta nella parte alta del paese, per riunire i cittadini a consiglio e gli uominivalidi per l’approntamento alla difesa.

Quella giornata, iniziata all’insegna della preparazione della venuta del Salvatore, portatore di pace e di amore, si chiude con un triste bilancio di morte. Da ambo le parti in lotta le perdite sono ingenti. I soldati dell’esercito regolare napoletano, che per primi avevano organizzato la resistenza armata, vistisi ormai perduti, cercano la salvezza dandosi alla fuga verso sud, per ricongiungersi all’esercito borbonico ormai in rotta. Ed è la tragedia!

Quelle di Popoli sono ricordate come le festività natalizie piú gelide e squallide che essa ricordi in tutta la sua storia. E, dopo Popoli, è la volta dei restanti comuni della valle. (Di Donato, Popoli e i Popolesi, Popoli, 1976). Leggiamo, in tal contesto, un altro brano della cronaca, tratta anch’essa dagli atti notarili del Dott. Perrotti:

Ma i danni cagionati dai francesi in L’Aquila e Popoli non rimangono fatti isolati. Altrettanto si verificava in tutti i paesi della Marsica: da Collarmele ad Avezzano, da Capistrello a Celano, a Cappelle e poi a Carapelle, a Barisciano, tanto a S. Demetrio che a Capestrano e via via in tutti i luoghi attraversati dalla loro criminale avanzata.

I francesi si dirigono verso Napoli

Alla fine di dicembre, il Duhesme riceve ordini di lasciare in Abruzzo le guarnigioni necessarie a mantenere l’ordine pubblico e di riunirsi con le restanti forze a Sulmona con il gen. Lemoine per poi muovere congiuntamente verso Capua. In esecuzione di tali ordini, il gen. Duhesme divise le forze in tre colonne, rispettivamente al comando dei generali Rusca, Monnier e Thiébault, prescrivendo alle prime due di trovarsi riunite entro il 15 gennaio a Sulmona, dove anch’egli si sarebbe fatto trovare. Lungo la strada, la colonna "Rusca" viene attaccata da una banda di realisti comandata dal pratolano Sante Rossi, che riesce a ritardare la marcia di ventiquattrore. Il Rusca, di rimessa, incita i suoi a vendicare il gesto "attaccando due villaggi alla baionetta" all’incrocio di Pratola – Corfinio (allora denominato ancora Pèntima) - Roccacasale.

Un atto del Notar De Vincentis Giovanni Stefano (29.12.1799) cosí attesta:

L’azione antifrancese messa in atto dalla banda partigiana realista inizia dall’alto del bosco circostante l’attuale diruto Complesso Chiesa-Convento di S. Terenziano, ubicato in posizione dominante sulla sottostante valle (a prima vista sembra piú una casa fortificata o una torre di avvistamento-castello) dove si era appostata su una collinetta, tra la fitta vegetazione, che domina la strada Popoli – Sulmona. Da lí i realisti fanno rovinare a valle una nutrita sassaiola, accompagnandosi con i pochi fucili a disposizione, uccidendo un capitano francese col suo cavallo; quell’incidente innescava ancora una volta la pronta reazione della colonna francese del Rusca persaccheggiare la cittadina di Roccacasale e procedendo ad alcune fucilazioni.

Pronio respinge i francesi a Roccacasale

Nel castello di Roccacasale abitavano nel periodo considerato il barone Giuseppe Maria De Sanctis, di anni 69, figlio primogenito di Giambattista, figlio di Francescantonio, secondogenito, la moglie Donna Giacinta, il fratello Diamante, i servi Saturnino Trotta, di anni 28 e Maria Anna. Il barone Giuseppe Maria, dopo la tremenda sconfitta subita, stava appunto rientrando coi suoi cavalieri, quando giunto a Popoli, veniva avvicinato dal capomassa Giuseppe Pronio, con circa settecento uomini racimolati alla men peggio nei paesi della vallata, che, in nome del Re, gli offre il comando della sua banda, posta a difesa della Gola d’Intramonti (il passo a monte dell’abitato di Popoli), ultimo baluardo contro l’avanzata francese verso la capitale Napoli. La resistenza che i francesi incontrano in quella località dura cinque giorni, al termine dei quali, il 14 gennaio 1799, col sopraggiungere dei rinforzi degli uomini del gen. Duhesme, gli invasori riescono a sbaragliare le forze condotte dal De Sanctis e dal Pronio, purtroppo male addestrate, poco armate e scarsamente organizzate. Il giorno dopo le truppe francesi irrompono nella valle ed assaltano il Castello menzionato, a difesa del quale si trovano, al momento, il capitano Giambattista De Sanctis e suo fratello Pietro con le rispettive famiglie e i tre figli di Giambattista. Per tre giorni i francesi combattono accanitamente, ma attaccati di fronte e alle spalle, con frequenti imboscate, da gruppi di artiglieri ritiratisi dalla difesa di Popoli, vengono respinti con gravi perdite e costretti a ritirarsi a Pescara. Pietro, durante quel combattimento, postosi a difesa della torre, perde la vita.

In quegli stessi giorni, Giovanni Raffaele d’Espinosa e il sacerdote D. Gaetano Gatta di Anversa degli Abruzzi si recano di casa in casa per preparare gli uomini alle armi e mettere d’accordo i capi delle masse ivi raccolte. Si costituisce una lega armata dei Comuni di Anversa, di Bugnara, d’Introdacqua e di altri paesi della Marsica e dei dintorni di Celano e di Pescina. Quando poi i francesi, il 15 marzo 1799, faranno ritorno a Roccacasale, per ritorsione cingeranno nuovamente d’assedio il Castello attaccandolo dall’alto della rocca. La furibonda battaglia che ne conseguirà in quell’altrettanto terribile giornata ci è stata tramandata da uno degli eredi, A. De Sanctis, in una specifica monografia che racconta passo passo gli assassinii, le violenze e le ruberie dei lerci francesi.

I francesi a Sulmona

Il 24 dicembre è anche la volta di Sulmona. Le truppe di Lemoine vi fanno ingresso senza che i Sulmonesi oppongano alcuna resistenza. Vi rimarranno alcuni giorni. Si dice che Sulmona, per ragioni di opportunità militari, viene risparmiata dal sacco e dall’incendio, anche se nelle prime azioni si contano una trentina di fucilati. Il 29, Lemoine, fattosi sostituire dal Rusca, ripassa per Popoli perché chiamato a S. Germano. Approfittando dell’assenza, sorge Pronio con la sua banda in ritiro da alcuni giorni ad Introdacqua, che viene a contrastare le truppe francesi a Pentima (oggi Corfinio), rinforzato dalle masse di Francesco Giacchesi, opponendo energica resistenza. I francesi in quella circostanza hanno la meglio e, per vendicarsi dell’atto di ribellione, sottopongono la stessa Pentima ad un crudele saccheggio. Il Rusca, conclusa la vicenda operativa in Popoli, riprende la marcia per Sulmona che occupa militarmente il 2 gennaio, seguito di lí a poco da Duhesme. La città, questa seconda volta, si ribella, scatenando tutto il suo furore contro l’invasore.

Giuseppe Pronio, alle prime luci dell’alba del 4 gennaio, con la sua banda, per lo piú composta di contadini e pastori reclutati nei giorni precedenti nelle campagne e sui monti del comprensorio peligno, giunge nelle vicinanze dell’allora Convento dei Domenicani, oggi Caserma "Umberto Pace" ospitante le truppe francesi del gen. Duhesme. In quell’azione le masse del Pronio sono coadiuvate da quelle di Gio. Raffaele d’Espinosa, provenienti da Bugnara ed Anversa, e dai sacerdoti D. Pelino Rossi di Pratola Peligna, D. Gaetano Susi d’Introdacqua, D. Gaetano Gatta di Anversa, i quali si erano dimostrati molto solleciti nei giorni precedenti a reclutare masse popolari, armi e munizioni. Quegli stessi uomini, simulando di nascondere le zappe sotto i lunghi pastrani e mantelle, indossati per la circostanza, al segnale convenuto tirano fuori i fucili a pietra focaia e aprono il fuoco. Il quartiere viene presto cinto d’assedio e contro di esso la lotta divampa furibonda. I francesi, barricati all’interno dell’edificio, sono costretti a resistere impotenti, opponendosi con tutte le loro forze, fintantoché gli uomini della banda Pronio non riescono ad appiccare il fuoco, costringendoli ad uscire. La lotta prosegue ancor piú cruenta per l’intera giornata per le vie cittadine. Ecco la cronaca degli avvenimenti che ne fa lo storico introdacquese R. Mampieri, in un suo saggio di qualche ventennio fa:

"Meritava" la città di Sulmona di essere saccheggiata e poi data alle fiamme. "Tale giusto castigo – scrive il gen. Thiébault nel suo "Diario", piú volte menzionato, - non poté infliggersi, perché essa doveva servire come luogo di tappa per la mia brigata, e, poiché era piena di feriti lasciativi dal gen. Lemoine", il quale, dopo aver definito briganti gli individui delle masse del Pronio, non può disconoscere, nel contempo, il loro fiero spirito combattivo. Per dare un giusto esempio – riferisce sempre il Thiébault – il Duhesme fa fucilare trenta abitanti della città con giudizio sommario, accusandoli di essere partigiani del Pronio, quantunque la mancanza di fonti archivistiche non abbiano confermato il fatto come effettivamente accaduto. A Sulmona le truppe francesi sono solo di passaggio o, tutto al piú, vi restano pochi giorni, appena sufficienti per risolvere questioni logistiche connesse con i rifornimenti ed il riassetto. Il Rusca rimane a Sulmona fino all’indomani notte (alle tre del 5 gennaio); eludendo la vigilanza del Pronio, parte alla volta di Isernia, seguito il 9 dalle truppe del Duhesme, costretto, invece, a combattere con le masse poste a contrastare il passo dei francesi nelle Gole di Castel di Sangro.

Combattimenti a Castel di Sangro

Il passaggio per Rocca Valle Oscura (l’odierna Rocca Pia), dopo Sulmona – Pettorano sul Gizio, avvenne tra il 9 e il 10 gennaio 1799, fortunatamente senza che si verificasse quel disastro preannunziato di incendi e fucilazioni, dato che nelle fonti documentarie locali del tempo non è fatta alcuna menzione. Questo "scampato pericolo" secondo taluni studiosi è attribuibile, molto probabilmente, al merito del capomassa Pronio, il quale per evitare una occupazione militare del suo paese natale di Introdacqua, come avevano minacciato i francesi, con prevedibili ingenti danni, pattuisce di non attaccarli in Rocca Valle Oscura. Ipotesi, questa, che si potrebbe accettare per buona, se si considera che nel tratto Pettorano – Rocca Valle Oscura, il Pronio, con la sua banda avrebbe potuto provocare un vero massacro, con ripetute azioni di guerriglia, come aveva già operato precedentemente nelle Gole d’Intramonti, a monte di Popoli e di S. Terenziano.

Il trasferimento da Sulmona avviene lungo l’Altopiano delle Cinque Miglia – definito dal "corrispondente di guerra" francese Thiébault nell’opera citata "una delle gole piú belle che esistono … per le quali il vento del nord vi arriva e vi si ingolfa". Giunti a Castel di Sangro, i francesi trovano un consistente sbarramento stradale composto da alte barricate e uomini armati con il compito precipuo di ostacolare loro il passo per l’accesso ad Isernia.

Nonostante tutto il gen. Monnier non giunge nei tempi previsti perché colpito da un incidente dovuto all’inclemenza del tempo, per il quale motivo era stato costretto a permanere a Sulmona, fino a quando cioè la perturbazione non fosse cessata. Intanto tutti gli uomini componenti il nucleo esplorante, sorpresi da una furiosa bufera di neve nelle gole di Pettorano sul Gizio, dispersi tra i monti, vengono trovati morti per assideramento.

Giuseppe Pronio, un eroe del popolo

Benché il 23 gennaio venisse instaurata l’effimera "repubblica partenopea", Giuseppe Pronio continua a svolgere il suo ruolo. Egli resta, infatti, ancora l’esclusivo dominatore di queste terre, il capo indiscusso del movimento "insorgente" antigiacobino per eccellenza, e gli sarà attribuito il grado di colonnello, elevato poi a generale con nomina regia. Egli impartisce indiscriminatamente i suoi ordini a tutte le truppe a massa della vallata, cioè in quella specifica zona nei cui confini è compreso l’Alto Sangro. Il 6 settembre 1800, il capitano D. Samuele di Salle, a nome di Ferdinando IV (da pochi mesi ritornato a Napoli) e di D. Giuseppe Pronio, presiede all’allistamento delle nuove masse in Abruzzo, portando a conoscenza della popolazione un proclama del Pronio del seguente tenore:

Vi furono anche dei traditori. Tra quei giovani che sposarono la causa filofrancese si ricordano Angelo Pasquale, Ludovico Rosatore, Filippo Iuliano e Venanzio Pietroleonardo, tanto per citare alcuni nomi di Prezzani scelti da un vasto campionario di vili nostrani. Con il ritorno alla normalità, anch’essi subirono le pene riservate ai traditori e ai sovversivi, come la fucilazione e lo squartamento.

Anche Pacentro in quell’occasione diede molte prove d’irrequietezza, come l’aveva già dimostrata ad ogni trapasso tra feudatari diversi in frequenti avvicendamenti, osteggiando generalmente l’ultimo arrivato, perché considerato l’usurpatore del comune bene e della pace pubblica. E durante l’occupazione francese darà l’ennesima prova di risentita maltolleranza verso i nuovi occupanti, prendendo parte attiva nell’azione antifrancese, grazie alla presenza di valorosi agitatori, in grado di organizzare e condurre ampie masse popolari; tra i piú noti esordienti figurano: Bernardino Avolio, D. Pietro De Angelis e D. Lorenzo Massa. Ebbene, in quel contesto storico-politico, i Pacentrani reagiscono energicamente con un’insurrezione armata contro le autorità occupanti; l’azione viene purtroppo vanificata con la pronta repressione, ascrivendosi, per tali fatti, anche la bruttanomea di popolazione "assai feroce", attribuita dagli stessi francesi. Anzi, la Giunta del Governo di Napoli, nella risoluzione del 14 settembre 1799, consiglierà il capomassa Pronio che rispetto alle "… tre feroci popolazioni di Introdacqua, Pratola e Pacentro faccia uso di tutta la destrezza e prudenza per togliere gli sconcerti che vi regnano e per stabilirvi la tranquillità e la subordinazione facendo uso, ad effetto di ottenere il disarmo, anche nel mezzo di consegnar le armi per conto di Sua Maestà".

Non mancano, in tale circostanza, volontari pacentrani che si portano ai confini adducenti alla "Rocchetta" e a Caramanico, per ostacolare il movimento all’invasore d’oltralpe. Lo scontro tra il Rusca e le masse popolari prosegue fino a portarsi nel villaggio di Miranda, nel Molise. A Isernia era giunta nel frattempo la notizia del movimento delle truppe francesi e si preparavano celermente ad accoglierle nel modo dovuto, come avevano fatto i Sulmonesi nella giornata del 4 con lanci di pietre, tegole, mattoni, fuoco acqua ed olio bollente. Questo strano ricevimento costerà molto caro alla città d’Isernia, che registrerà – a detta del Rivera – circa quindicimila morti.

Entra in azione Michele Pezza, Fra’ Diavolo

Dopo quei fatti, il Duhesme ed il Lemoine raggiungono Venafro, dove si congiungono con il Comandante della spedizione il gen. Championnet per proseguire la manovra di avvicinamento verso Napoli. Anche qui all’opposizione delle masse abruzzesi-molisane, ardite e feroci, subentrano altre ancora piú fiere, prime tra tutte quelle di Michele Pezza, alias "Fra’ Diavolo", maestro della guerriglia, la nuova forma di lotta da lui inventata e che da allora sarà tenuta sempre presente in qualsiasi manifestazione di opposizione allo straniero.

In questo trapasso di poteri, tra l’abruzzese Giuseppe Pronio, alias "Gran Diavolo", e Michele Pezza, alias "Fra’ Diavolo", i generali Duhesme e Lemoine avranno vita difficile e – come ci ricorda il Colletta nella sua opera – essi, ricongiuntisi col generale in capo Championnet, "… riferirono i sostenuti travagli e gli impedimenti e gli agguati, la nessuna fede degli abitanti, le morti de‘ Francesi, troppe e spietate; il gen. Duhesme portava ancor vive due ferite sul corpo; e narrando le maggiori crudeltà, citava i nomi spaventevoli di Pronio e di Rodio. E poi che il generale Championnet v‘ebbe aggiunto la storia de‘ tumulti e de‘ fatti popolari di Terra di Lavoro, e ricordato i nomi già conti per atrocità di Fra‘ Diavolo e di Mammone, viddero i generali francesi (adunati a consiglio nella città di Venafro) stare essi in mezzo a guerra nuova ed orrenda; essere stato miracolo di fortuna la viltà de‘ comandanti delle cedute fortezze; e non avere altro scampo per lo esercito che a tenerlo unito, e per colpi celeri e portentosi debellar le forze e l‘animo del popolo" (P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, III, 38).

Luigi Torres

LE VOCI DI DENTRO

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Rubano la nostra storia

Ero appena un bambino quando la buonanima di mio padre (che aveva appena la V elementare, ma che valeva piú di un laureato di oggi… ) mi conduceva al Museo di S. Martino. Era fiero di indicarmi i segni della memoria storica di una Napoli capitale, le testimonianze di una città resa piú bella dalla dinastia borbonica.

Ho ancora negli occhi e nel cuore quella stupenda serie di modellini di navi borboniche, i soldatini del "nostro" esercito, i ricordi del Petito … gli abiti vescovili del Ruffo, le armi, i gradi… Dove sono finite queste testimonianze di una Napoli "grande" che richiamava i piú bei nomi della cultura e dell’arte europea? Chi ha deciso di distruggere la nostra memoria storica? E perché? Chi deve spiegarcelo tace … Ed allora è lecito il sospetto che "pochi" abbiano tramato nell’ombra per allontanare da S. Martino ciò che potesse alimentare l’orgoglio di discendere da una nazione napoletana che, proprio sotto i "Borbone", testimoniò la sua grandezza, ergendosi a difesa della cattolicità messa in pericolo dalle idee pseudolegalitarie provenienti d’oltralpe.

Mettere negli scantinati o allontanare da S. Martino ciò di cui eravamo orgogliosi? Vorrei una risposta da chi tace …

Alberigo Olivieri, Napoli

A questa lettera, tratta da Il Mattino di Napoli, senza commento, vogliamo noi dare una risposta. Immaginiamo, però, che questo lettore sappia chi sono questi "personaggi" che compiono tali sabotaggi al nostro glorioso passato. Questo non è che uno dei tanti episodi che, in quest’ultimo periodo di riscoperta della nostra magnifica storia, si stanno verificando. Il fatto, se da una parte fa chiaramente capire che "quelli" hanno paura che piano piano la verità stia venendo a galla, da un’altra parte ci indica che la "presenza" di questi luridi traditori è inserpata dappertutto ovunque sia situato un benché minimo centro di potere. Ma la battaglia non è persa in partenza, è necessario tuttavia che ognuno di noi non resti inerte davanti a queste vicende, proprio come ha fatto lei, caro Alberigo, è necessario cioè che noi "veri meridionali" non ne perdoniamo una, che è una, di queste vili azioni, soltanto cosí riusciremo a difenderci con efficacia. Se stiamo sempre zitti, come pecoroni, non facciamo che fare il loro gioco e il nostro suicidio.

La grandezza dei Borbone e la turpitudine dei Savoia

Sul Corriere della Sera del 5 luglio 1999, a firma di Sergio Romano, compare l’articolo: "Se i Borbone sono meglio dei Savoia". Con riferimento alla celebrazione delle nozze d’oro dei pretendenti al trono delle Due Sicilie avvenuta il 3 luglio nella Reggia di Caserta, l’autore sostiene le ragioni del rientro dei Savoia pur opponendo molti e seri distinguo. Le ragioni a favore (e quelle contrarie) mi trovano perfettamente d’accordo. Non mi trova per niente d’accordo il ricorso, considerando la personalità e la cultura del dottor Romano, ad uno dei piú abusati luoghi comuni nella frase: "… e gli ospiti si sono alzati per rendere omaggio agli eredi di un regno che William Gladstone, leader dei liberali inglesi, definí nel 1851 la 'negazione di Dio'".

Non voglio entrare nel merito dei commenti sullo svolgersi della cerimonia, ma mi piace fare almeno una puntualizzazione sulla frase citata. Le Letters to Lord Alberdeen, che Gladstone scrisse, riportavano tra i "si dice", "come mi han detto", "so da fonte rispettabile, ma non sicura", che il processo agli unitari, setta immaginaria, era stato montato: che i campioni della cultura, dell’intelligenza e dell’onestà politica come Poerio e Settembrini erano stati condannati ingiustamente, gettati in orrende carceri sotterranee, che il regime penitenziario era spaventoso e che i prigionieri erano ammassati in "purulenti carnai"; riportando assolutamente improbabili numeri di prigionieri, torture e mancato rispetto da parte dei sacerdoti perfino del segreto professionale, e concludevano con la forte espressione "questa è la negazione di Dio eretta a sistema".

Questo quadro orripilante tracciato dal Gladstone (si saprà su mandato di Lord Palmerston, titolare del Foreign Office), fu diffuso per volere dello stesso Palmerston, tradotto in molte lingue e portato a conoscenza di molte nazioni. Se ne fecero un centinaio di edizioni comprensibilmente apprezzate dai rivoluzionari italiani di ogni tipo e furono ampiamente sfruttate dalla stampa sovvenzionata da Cavour. A questa terrificante requisitoria si opposero le polemiche di parecchi intellettuali napoletani e quella di Jules Gondon, che punto per punto demolí il castello di menzogne e di calunnie edificato da Gladstone e funzionale alle mire inglesi sulla Sicilia. Ed a questo proposito aggiungeva: "Per togliere la Sicilia a Re Ferdinando occorre, è naturale, far rivoltare il suo popolo e togliere popolarità al suo governo; ora che cosa disaffeziona meglio un popolo e discredita meglio un sovrano che la calunnia?".

Analoghe considerazioni fa De Sivo che confronta le condizioni del Regno con quelle veramente terribili dell’Inghilterra e della Francia, rilevando che per queste ultime né il Gladstone, né altri, avevano sentito la necessità di meravigliarsi e di effettuare alcuna denunzia. Le repliche e le confutazioni ottennero l’effetto di spingere Lord Aberdeen, a cui Gladstone aveva chiaramente forzato la mano, di ritirare il patrocinio alla lettera dicendosi desolato per quanto era avvenuto. Nel 1852 lo stesso Gladstone si rimangiò molto di quanto aveva scritto e confessò di essere stato anch’egli raggirato.

Per concludere riportiamo quanto Domenico Razzano scrisse: "Gladstone tornato a Napoli nel 1888 – 1889 fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del cosiddetto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la "negazione di Dio", che tanto aiutarono la nostra rivoluzione; ma a questo punto Gladstone versò una secchia d‘acqua gelata addosso ai suoi glorificatori. Confessò che "aveva scritto per incarico di Palmerston, con la buona occasione che egli tornava da Napoli; che egli non era stato in nessun carcere, in nessun ergastolo; che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari".

Furono diffuse le rettifiche, ma il danno era stato fatto, soprattutto trovando tante orecchie disposte a sentire una sola campana. E il falso ancora resiste, poiché molto piú della verità può la calunnia. Che è dura a morire.

Antonio Nicoletta, Floridia

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